di Vincenzo Riccobono e Alessia Brandoni/ Sui Beatles è stato scritto tantissimo, biografie monumentali -sul primo periodo, sul secondo , sulle carriere da solisti, su tutti gli aspetti che hanno avuto a che fare con la loro vita come gruppo e loro come artisti. John è passato alla leggenda; Paul troneggia sul passato e ancora partecipa con il suo prudente e illuminato vitalismo alla vita e alla storia del rock; a George vengono dispensati tributi universali; Ringo è Ringo: un’icona, non si discute; a cadenza bimestrale (manco fossero bollette) escono registrazioni inedite che, perita la romantica era dei bootleg, impazzano sui social; l’album ONE, uscito nel 2000, è stato ai vertici delle classifiche di tutto il mondo; le generazioni precedenti la loro hanno canticchiato e apprezzato le loro canzoni; quelli che hanno attraversato il periodo se li portano nel cuore dopo averlo gettato al di là della ragione nei loro concerti mentre i ragazzi, loro figli, hanno imparato (o impareranno) presto ad amarli.
Al di là di ogni tentativo di classificazione –più una simpatica hit parade del tempo che passa che una vivida, molto più difficile, tassonomia di ciò che resta- si potrebbe pensare che The Beatles esisteranno per sempre, e che per sempre (tra il salvifico e il paranormale) si riaffacceranno sulla scena mondiale a raccontarci di nuovo la loro favolosa storia e a cantarci le loro canzoni . La rivista Rolling Stones, e non è la sola, li mette al primo posto degli artisti più influenti dell’era del rock & roll e da un pezzo sono considerati da tutti un “classico”. Ogni canzone a creare anche un modo del “canone” a venire più influente di sempre, il (mondo del) pop. Ma forse c’è ancora qualcosa in più, nel fenomeno Beatles, che sfugge (e non torna più).
Dentro quel qualcosa in più, e di più, ha provato a calarsi Ron Howard, gettando uno sguardo lungo, quanto gli amati vinili, e pieno d’amore, l’amore che di lì a poco avrebbe sconvolto le piazze, ai Fab Four -anzi forse è stato proprio il suo alter ego Richie Cunningham a farlo.
Happy days dunque, ovvero la felicità, l’energia inesauribile di quei quattro che poco più che adolescenti andavano ad Amburgo a suonare fino a spellarsi le mani, perché erano felici -sarebbero diventati favolosi perché lo erano già, dentro di loro. Questo aspetto, la percezione della Felicità, di una felicità associata a fiducia, voglia di fare e di esprimersi (quasi una rivisitazione del “sogno americano”) sembra muovere il regista.
La storia narrata nel documentario va dagli anni dei concerti ad Amburgo fino al 1966, anno svolta, quando decidono di abbandonare i concerti, quando il gruppo comincia a sentire la stanchezza e forse anche il senso di vuoto, la ripetizione inutile dei loro gesti, quando –e forse non è un caso- il mondo fuori comincia a gridare non più solo istericamente ma anche politicamente. Fino ad allora avevano suonato ininterrottamente, composto centinaia di canzoni, conquistato tutte le classifiche, conquistato l’America, dove hanno combattuto, e a loro modo anticipato, battaglie contro il segregazionismo non andando a suonare nelle sale dove non potevano entrare i neri, dove John Lennon e i Beatles si sono attirati la furia violenta e iconoclasta dell’america razzista e benpensante con la frase “Siamo più popolari di Gesù Cristo adesso. Non so chi morirà per primo. Il Rock and Roll o il Cristianesimo”. Ecco, questa frase fu pronunciata il 4 marzo 1966 e fu la fine della “felicità” dei Beatles; fu l’inizio, cioè, delle canzoni più belle, quelle più sperimentali, più innovative, più profonde, un periodo segnato da crescita personale e non più di gruppo. Furono, quelle dopo il ’66, canzoni scritte a contatto con culture e pratiche mentali diverse, antagoniste, fu la droga, la psichedelia, l’amore libero e le filosofie orientali, fu il pacifismo. La loro potenza creativa è impressionante, più di prima, ma la loro felicità, o piuttosto i loro giorni felici, stanno svanendo –avrebbe scritto allora un bravo reporter.
In un certo senso quest’indagine di Howard sembra volta proprio ad approfondire i meccanismi della percezione della felicità, se non la sua generazione, così come si formano nel cuore del “gruppo”, della sua unità, del tutti per uno e uno per tutti: scanzonatamente, come i moschettieri di Dumas, o eroticamente, come tutte le lotte per finta, elettriche e sudate, che si fanno quando si è ragazzi e si cerca un abbraccio (Paul e John, ci racconta inoltre Howard, uniti dalla comune perdita della madre durante l’adolescenza). E le masse giovanili erano, insieme a loro, “IL gruppo”, ovvero un unico e indistinto corpo sociale e generazionale che si riunisce nelle sue pratiche e prima fra tutte quella della percezione della felicità, della liberazione dell’energia, del dar corpo, cioè, al grande microfono collettivo dove poter poggiare tutti le proprie labbra arrossate e finalmente gridare “Help! I need somebody”…
Un corpo mistico ma almeno nelle impulsive intenzioni tutt’altro che nichilista –è il pop, bellezza…
Howard si ferma qui, non va oltre, o almeno apparentemente. Non ci sono prospettive psicologiche legate ai noti legami e litigi che seguirono. E di John Lennon preferisce far ascoltare la sola voce, una voce scherzosa che racconta un fatto quotidiano, in tal modo restituendoci, e forse ancora di più proprio perché in “assenza”, il vuoto e l’orrore di chi non c’è più che forse sta anche a dire di una generazione che non c’è più. E questo, insieme alla violenza simbolica delle scene di repressione delle fan, che gridano isteriche e felici, da parte delle forze dell’ordine (come se in qualche modo tentassero di reprimere anche la ribellione a venire), e ancor più insieme ai riferimenti (quasi sempre in un evocativo fuori campo) alle battaglie sui diritti civili, a Martin Luther King e alla morte di Kennedy –ma dov’è la guerra del Vietnam?- ci lasciano, invero, con un senso latente di aver subito non tanto una leale sconfitta quanto, piuttosto, una preordinata e reiterata violenza. Così che quelli che pensavamo essere eventi paralleli che mai avrebbero potuto toccare la ricerca della felicità da parte dei grandi Beatles, del bravo Richie Canningham, delle distratte masse adolescenziali, finiranno invece per far esplodere tutte le contraddizioni che già Lennon aveva istrionicamente anticipato – “Siamo più popolari di Gesù Cristo adesso. Non so chi morirà per primo. Il Rock and Roll o il Cristianesimo”?.
Howard, in fondo, non fa che mostrarci un’esplosione di energia, sorta di fusione nucleare epocale, che è, sì, anche quella che alimenterà le azioni liberatorie delle masse giovanili negli anni successivi, ma che, appunto per questo, proprio in quegli anni inizia a subire i primi colpi dai vari, spesso troppo concentrati, osservatori di stato.
Potente, in coda, la registrazione del concerto allo Shea Stadium.
Piano sequenza isterico oltre il finale.