di Fabrizio Funtò/ Come è noto, il confine fra la genialità e banalità è labilissimo. Sottile almeno quanto quello che separa il mostruoso dall’angelico. Quel confine è in realtà il territorio smisurato, privilegiato, dove agisce liberamente l’artista.
Più di una contraddizione muove l’artista nel rasentare entrambi i crinali che delimitano quel territorio. Più volte si fermerà a guardare in basso, nei baratri sui quali il suo altipiano si affaccia, e dai quali trae tutta la propria forza e la propria energia creativa.
Perché anche l’artista è un mortale. E perché, avendo un tempo limitato, deve necessariamente trovare un senso a quel poco che può fare. O produrre (in greco).
Ma se fosse immortale, perderebbe tutto il suo tempo a girovagare e a vedere. Senza voluttà e senza volontà. Passerebbe di stagione in stagione, di territorio in territorio, senza nessun ammanco, perché ciò che sprecherebbe non gli verrà mai a mancare. E quindi se lo può donare con indifferenza: non gli comporta alcuna perdita. Ma al contempo non gli è di nessun beneficio.
Su questo paradosso è costruito il racconto di J. L. Borges L’Immortale che fa da sfondo al lungometraggio Spira Mirabilis. L’eternità comporta naturalmente i suoi paradossi, uno dei quali dice che nel casuale alternarsi di eventi equipollenti, non può non accadere tutto.
Non può quindi non accadere che un Omero scriva una Iliade e una Odissea, sarebbe anzi strano che non accadesse. Così come che la sconfitta non si tramuti in una vittoria, o che la morte non si tramuti nella sua morte, vale a dire nella sua negazione — che è poi la vita.
Affrontare un paradosso di Borges è impresa difficilissima, trasformarlo in un testo per immagini è quasi superumano. Probabilmente, la cosa migliore da fare in questo caso è proprio dimenticarsi del testo di Borges ed abbandonarsi alle sue suggestioni, reinterpretandole nel crogiolo segreto della propria sensibilità artistica. Se Spira Mirabilis ogni tanto offre uno spiraglio di poesia, è proprio quando non recita un testo troppo complesso per apparire in immagini.
Quando la barca del filmato scioglie invece la cima e prova a remare da sola, allora — e disgraziatamente solo in quei momenti — diventa toccante. E per descriverlo vale la pena scomodare un termine della lingua inglese di difficile traduzione in quelle neolatine, ma credo comprensibile nella sua allitterazione fonetica: mesmerizing. Affascinante, ipnotizzante, catturante.
Mesmerize è guardare i lapilli che salgono dalle fiamme, per intere ore, senza stancarsi mai e senza pensare a niente. O il risciacquo dell’onda ogni volta uguale a se stessa e ogni volta diversa nel ritmo e nella rena che riporta indietro e che rilascia subito dopo. È indovinare nelle luci riflesse sulla superficie dell’acqua la forma e il soggetto che le sta provocando, senza necessariamente guardare l’originale. È guardare le nubi che scivolano sulla trama del cielo, o i pesci rossi che fanno di un acquario il loro intero universo, senza poter comprendere il noumeno che si avverte oltre lo spessore del cristallo. E che siamo noi.
Ci si lascia così andare a scrutare un pianeta visto nel grandissimo e nell’infinitesimale, nei suoi organismi complessi e mastodontici, come gli alberi di una foresta che ad onta di tutta la loro forza e tenacia cascano giù con la lievità delle piume — così come le aritmiche e compulsive sistole di microrganismi elementari, posti sotto la lente di ingrandimento elettronica e raccolti dalle acque di quel fiume sacro — là, dove bagnarsi due volte è pur sempre impossibile.
Il grandissimo coincide con il piccolissimo, in un certo piano.
I gesti e le azioni degli uomini, visti al contrario da sotto la stessa lente, come se ora noi fossimo trasformati in micro-meduse, si allontanano in un iperuranio imperscrutabile e indifferente, come le azioni degli dei di Epicuro. E sono canti tribali del popolo rosso una volta libero— e che rievocano un passato di sangue, che reclamano un ritorno del tempo passato. Oppure l’interramento e la inumazione. Ma potrebbe essere anche e semplicemente lo sguardo che si sperde nelle lontananze, a perdifiato, in un qualunque deserto o fra le colline della Black Hills.
Tutto ciò è, e resta — indifferente. Per un microrganismo (o per uno macro—) non ha alcuna importanza.
Alla fine restano solo le parole.
Ma per noi, figli della terra mortale, deve pur sempre nascere un senso. Ed è proprio questo che ci inchioda alla amata e odiata madre terra.
Fare un film a partire da queste suggestioni diventa sempre empio, perché si devono usare le immagini e non le parole (che andrebbero tutte espunte: tutte!).
Spira Mirabilis tocca nelle fibre in una sensibilissima parentesi che centra completamente l’obbiettivo: la costruzione dello hang, vale a dire di quella sorta di strumento musicale formato da due gusci di metallo sonoro sapientemente sbalzati e che genera un universo intero di suoni. Lì, nella fusione fra artigianato, abilità, tecnologia, musica, abilità nel canto, creatività e vita (lo hang diventa lo strumento che accompagna il canto originario della madre che accoglie la nascita del figlio) si ottiene il lirismo. Perché non concentrarsi allora su questo “senso” ed abbandonarsi ad esso, e solo ad esso?
Perché recitare un racconto nella lingua di Descartes?
Anche perché in quella vita nascente, in quell’occhio alieno che viene aperto per la prima volta nel mondo, in quel ritmo del canto di una madre, vi è tutto il mistero che neppure Borges riuscirebbe a spiegare. Vale a dire che puoi eternamente girare attorno al punto da cui trai origine, e che per quella eternità infinita in cui percorri la tua spirale mirabilis, ti accadranno tutti gli avvenimenti che potrai immaginare, e anche quelli che non potrai immaginare.
Inclusa la tua morte. Come apprese Rufo, il protagonista di Borges.
Intenso Fabrizio. E però quello che noi vediamo non è il senso del film. Questo non si mostra nei 121 minuti di immagini che si accumulano e parlano di se stesse. E se, come viene detto, per un Lakota l’uomo immortale è colui che cancella i segni della sua vita, che fa il possibile per farsi dimenticare conquistando l’eternità della morte, forse io avrei fatto tesoro di queste parole e avrei proceduto per sottrazione. E, come dici tu, silenzio.
Bisognerebbe guardare questo lungometraggio con gli occhi di un immortale, per comprendere una parte di significato: un immortale che ha il solo problema di far scorrere il tempo infinito…
Penso questo, Stefania: se il regista dichiara (o reclama) l’ispirazione da un racconto di Borges — e stiamo parlando forse della vetta della letteratura, la vetta della complessità e stratificazione culturale — allora dovrebbe riuscire a ridare quella complessità attraverso il mezzo espressivo che gli è proprio, le immagini.
Se è costretto a far “leggere” il racconto agli attori, è come se dichiarasse la propria incapacità a rendere quelle stesse suggestioni con la sua arte, la settima. Strano che non se ne sia accorto, o che il produttore affianco a lui, in sala di montaggio, non gli abbia alzato il sopracciglio arricciando il naso.
Però la suggestione che nell’imbambolamento (il mesmerizing di cui sopra) che ti coglie nel guardare immagini ricorsive o ossessive, il pensiero si arresti e il tempo venga sospeso — come una apnea del respiro vitale — è probabilmente giusta.
Ha a che fare con i riti umani, credo. Dove il gesto che compie quel sacerdote o quell’officiante è lo stesso, il medesimo di quello compiuto chissà quante volte secoli prima, e di quello che si compirà chissà quante volte nei secoli a seguire. Uomini diversi esprimono così lo stesso significato, attraverso un gesto simbolico che annulla il tempo nel suo essere identico a se stesso. Ma così facendo quel gesto, quel simbolo, annulla anche il pensiero.
E’ questo il paradosso di Borges, a mio giudizio. Per cui nell’infinita ed eterna ripetizione il senso diventa casuale, ed infiniti Omero scriveranno innumerevoli Odissee. Inevitabilmente.
Peccato che il regista non abbia incentrato il suo lavoro su questo aspetto che pure tocca ma solo di passaggio, fra inumazioni e rinascite: là dove il rito consegna la vita alla morte, e dalla morte recupera la vita nuova.
Non so Fabrizio. Temo che qui le intenzioni siano inferiori alla lettura che tu ne offri. L’effetto di cui parli avrebbe necessitato di un intervento d’ “immagine”. Non so, per esempio di un diverso montaggio, magari più serrato, o di qualche altro elemento filmico che spezzasse il documentale. Credo che anche questa volta l’interpretazione superi la rappresentazione. In più, quanto tempo serve allo spettatore per godere di questo simbolo? L’infinita eterna ripetizione può darsi anche in 90 minuti. Forse anche meno.
Concordo: anche meno.