di Armando Andria / Uno degli autori di riferimento della scena teatrale europea, Joël Pommerat porta al Napoli Teatro Festival (in svolgimento in città fino al 15 luglio) una versione originale e interessante de Le avventure di Pinocchio. Già in passato al lavoro su capisaldi della letteratura per ragazzi (Cappuccetto Rosso e Cenerentola), il 53enne regista francese riduce la fitta trama del testo di Collodi a una manciata di quadri, sfrondando il racconto e valorizzando alcune delle tappe (e i relativi personaggi) del viaggio iniziatico che porta il burattino a diventare ragazzo: l’incontro con il Gatto e la Volpe; il Gran Teatro dei Burattini di Mangiafoco; la Fata Turchina; Lucignolo e il Paese dei Balocchi; la Balena.
Ecco, le tappe di un viaggio: l’adattamento di Pommerat mostra un protagonista (o forse una protagonista, visto che l’immagina con inedite fattezze femminili) sballottato continuamente verso nuove sponde, in un movimento ciclico di avventura, fallimento e risoluzione destinato a ripetersi molte volte prima della fine. Il che, se in una logica strettamente narrativa dipende dalle stesse scelte di Pinocchio, che lo portano a imboccare nuove “cattive strade” dopo ogni ravvedimento, a ben guardare è profondamente determinato dalle traiettorie disegnate per lui da un mondo oscuro e a tratti brutale.
La scena si presenta non a caso decisamente cupa, il buio prevale e la luce raramente arriva sul palco in maniera piena e diretta, piuttosto offuscata, filtrata, come proveniente da una dimensione irreale. Questo accentua le sembianze di sogno che lo spettacolo di Pommerat da subito assume; anzi di incubo, visto il carattere spesso violento e angoscioso delle avventure di Pinocchio. Citiamo ad esempio la trasformazione in asino, al culmine della storia, che per un peculiare incontro di magia e crudo realismo risulta di particolare impatto espressivo ed emotivo.
Nella penombra dominante emerge subito la figura di un narratore/presentatore, il quale, con lunghi interventi in cui si rivolge direttamente al pubblico, tiene i fili del racconto e allude a un senso morale dello stesso. È a torso nudo, con abbondante cerone su viso e corpo; richiama evidentemente il circo e il suo universo iconografico, eppure nel suo lungo intervento di introduzione allo spettacolo sottolinea il carattere di assoluta veridicità di quel che si accinge a raccontare, innestando cortocircuiti multipli per chi abbia a mente l’antonomasica bugiarderia dell’eroe collodiano.
Ogni quadro ha una sua autonomia, sia in termini scenografici che prettamente registici. La messa in scena, infatti, presenta soluzioni di notevole inventiva, sempre però a partire dagli elementi basici di un teatro essenziale. È il caso del ventre della Balena, che Pommerat vede semplicemente come un grande spazio spoglio in cui il burattino e Geppetto sono imprigionati, angoscioso proprio per la densità di un vuoto che non dà appigli né scampo, in cui le luci sono ancora una volta decisive, insieme ai suoni che fanno riecheggiare un mare ovattato e irraggiungibile.
Dal punto divista temporale, l’autore elimina qualsiasi riferimento, rendendo impossibile individuare un’epoca storica precisa in cui collocare la vicenda (in Collodi siamo a metà Ottocento circa) ma al contempo presentando dinamiche, personaggi e linguaggio fortemente vicini alla contemporaneità. D’altra parte, in quanto “classico”, Le avventure di Pinocchio solleva una serie di tematiche di eterna attualità.
Una è sicuramente quella, diremmo politica, della povertà. Pommerat, a quanto si legge, l’avrebbe ripresa, oltre che dall’originale collodiano, soprattutto dalla versione filmata per la Tv da Luigi Comencini negli anni Settanta, che insisteva molto sulle ristrettezze di Geppetto, che anche in questo adattamento è un vecchietto solo, pieno d’amore per la sua creatura e affranto per l’impossibilità materiale di soddisfarne le richieste. E poi c’è l’ansia di libertà incarnata da un Pinocchio sfrontato e istintuale (forse per questo più adolescenziale del personaggio originale), il cui movimento ciclico che si diceva più su, quel farsi tentare da nuovi detour laddove l’esperienza gli avrebbe insegnato che solo intraprendere la via maestra può trasformarlo in carne e ossa (fuor di metafora: farlo diventare grande), sembra la concretizzazione di una cruciale questione esistenziale: qual è il prezzo dell’approdo all’età adulta?