di Giovannella Rendi / Il cinema, secondo una ben nota definizione di Hitchcock, è la vita senza i tempi morti. Si può immaginare quanto sir Alfred rimarrebbe perplesso davanti ad un film come Sieranevada del rumeno Cristi Puiu, che altro non è che un lunghissimo “tempo morto”. Anche se ormai non fanno più quasi notizia gli esperimenti più estremi di dilatazioni temporali sia per quanto riguarda la durata effettiva di un’opera (i 435 minuti di Satantango di Bela Tarr) o il trascorrere del tempo di ripresa (i dodici anni di Boyhood di Linklater).
“Tempo morto” nel caso di Sieranevada ha la duplice accezione di tempo della morte, in quanto i suoi 173 minuti raffigurano quasi in tempo reale una commemorazione funebre che si tiene in un appartamento di una famiglia borghese, la celebrazione di una presenza/assenza raffigurata da un abito maschile steso su un letto. E quella hitchcockiana di “scarto”, “dietro le quinte”, quello che in montaggio si butta. Il tempo del film è infatti il tempo della vita vera, in cui non succede quasi nulla, un tempo noioso, faticoso, trascinato e ingabbiato in vuoti rituali di cui non importa più, fastidioso pretesto per una interminabile riunione di famiglia. Due fratelli, una sorella, i rispettivi coniugi, la madre vedova, gli zii, la cugina, due vecchi amici, la consuocera, una nipotina e una misteriosa ragazza croata ubriaca che dorme su un letto.
Nella sua ossessione di catturare la vita vera nei suoi più minimi interstizi polverosi, il regista supera il pedinamento zavattiniano per sostituire direttamente lo sguardo dello spettatore con quello della macchina da presa, spesso ferma all’ingresso dell’appartamento come un goffo ospite che non sa bene che fare, “girando la testa” di volta in volta verso le porte che si aprono e si chiudono incessantemente, lasciando profilarsi spiragli di conversazioni, da cui si ricostruiscono con fatica conflitti, tradimenti, bugie, vessazioni.
Quando la macchina da presa riesce a farsi largo nel continuo viavai di personaggi, ai lunghissimi piani-sequenza si affianca un montaggio quasi impercettibile, come un battito di ciglia che sposta lo sguardo ogni volta sull’interlocutore di turno, come in una conversazione infinita e spesso sterile cui non possiamo sottrarci o in cui il regista vuole costringerci e farci sentire prigionieri. Come i suoi protagonisti che quando non sono chiusi nel soffocante appartamento sono sigillati nelle loro macchine (che però li proteggono da un mondo ostile e violento dove per un parcheggio si scatena una rissa terrificante nella sua esclusiva verbalità), accompagnati dal regista seduto sul sedile di dietro come un normale passeggero, che ritaglia i loro sguardi sconfitti nello specchietto retrovisore o nei profili sfuggenti che si intravedono di spalle.
Sia in casa che fuori, Puiu si siede vicino ai suoi personaggi, tratteggiati ognuno nelle sue caratteristiche appena accennate da uno strepitoso cast di attori, e condivide con lo spettatore amarezza, stanchezza, sprazzi di vitalità e umorismo sotto una cappa di paura e rassegnazione. Si litiga e si discute, sembra più facile piangere sui crimini della dittatura comunista all’epoca della cortina di ferro, che per un marito che forse non senza ragione non ci ama più. Si parla fuggevolmente della strage di Charlie Hebdo ma poi al centro delle interminabili discussioni c’è ancora l’undici settembre e tesi e antitesi complottiste e quindi autoassolutorie, metafora forse di un paese che non riesce a elaborare i suoi lutti storici e non riesce a gestire un presente in continua, sinistra, evoluzione sotto un bombardamento mediatico (di volta in volta le varie tesi vengono confermate dagli inevitabili filmati di youtube).
Il paese che si affaccia in filigrana dietro questa lunga agonia (secondo la tradizione locale, il morto rimane ancora 40 giorni a girovagare nei luoghi della sua esistenza da vivo prima di poter trovare la pace, di qui la necessità della cerimonia con il prete ortodosso) è un luogo livido, sporco, con detriti e calcinacci e un cielo plumbeo, tuttavia non è più la Romania disperata di 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni di Mungiu, quanto quella borghese e moralmente sconfitta de Il caso Kerenes di Călin Peter Netzer.
Eppure nell’appartamento (che è un vero appartamento angusto e piuttosto buio, non uno di quei non luoghi ariosi e luminosi con corridoio da pista di pattinaggio che va bene La famiglia di Scola ma che il cinema italiano fornisce anche a un presunto proletariato in crisi – vedi La finestra di fronte di Ozpetek), nell’appartamento l’incessante attività e il cicaleccio più o meno logico, danno la sensazione di una disperata vitalità, non mancano echi umoristici buñueliani memori dell’Angelo Sterminatore, in questo caso si tratta di una tavola imbandita ma intoccabile anche se tutti muoiono di fame nell’attesa interminabile del prete ortodosso, che tuttavia quando arriva regala quasi suo malgrado un momento di grande lirismo.
E non è un caso quindi che quando finalmente finisce questo supplizio di Tantalo, la tensione si scioglie in una interminabile risata, non tanto consolatoria anzi forse piuttosto isterica, che comunque ci seppellirà.
Mi sono sempre chiesto come giudicare un artista che, per denunciare la stupidità, la metta in scena. O che, per il gusto del paradosso e dell’assurdo, faccia lo sgambetto al meccanismo della rappresentazione e della narrazione, riproducendo la realtà nel rapporto di 1:1.
Credo che abbia ragione la madre di Forrest Gump: “Stupido è chi lo stupido fa!”.
Ci sono tante cose di cui ti potresti occupare, e che sono di importanza cruciale per gli altri esseri umani. Se decidi di fare lo sgambetto all’arte, pendi una decisione fondamentale. E te ne assumi le conseguenze, incluso il giudizio del pubblico.
Ricordo di essermi alzato indignato ed essere uscito imprecando dalla sala dove si proiettava “La Recita” di Theo Angelopoulos, dopo il ventesimo minuto di camera fissa, su un muro chiuso da due palazzi che fungevano da quinte, con gruppi di persone che sciamavano da sinistra a destra e ritorno. Imbarazzante.
No, non credo si possa abusare dello spettatore. E non perché paghi il biglietto, ma perché è un essere umano anche lui, al quale dovresti far giungere il “messaggio dell’imperatore”, anche se il contenuto non gli arriverà mai. Ma ci devi, pur tuttavia, tentare. E’ questo l’anelito dell’arte.
Sul tempo cinematografico però ci sto però riflettendo, in relazione con altri tipi di racconto. E forse produco qualcosa che vi mando…
Bel pezzo, comunque, come sempre…
Personalmente ho sofferto un po’ la costrizione di essere spettatore – l’occhio relegato per un tempo così lungo nel disimpegno della casa – di questa depressione domestica a bassa intensità senza uscita: una condizione che tutti conosciamo bene e a cui in un qualche tempo delle nostre vite avremo provato a ribellarci. Nell’articolo è descritta assai bene questa condizione, che credo rispecchi esattamente il “progetto” di Puiu. Ma io durante la visione costantemente sentivo la necessità di respirare, di muovermi sulla sedia per trovare un altro punto di osservazione…