“Uscii dalla macchina e rimasi a barcollare. L’intero paese era andato a dormire in un lampo; l’unico rumore era adesso l’abbaiare dei cani. Come avrei mai potuto dormire? Migliaia di zanzare avevano già punto tutti noi sul petto, sulle braccia, e le caviglie. Poi mi venne un’idea luminosa: saltai sul tetto d’acciaio della macchina e mi stesi supino. L’aria era sempre immota, ma l’acciaio aveva dentro un elemento di frescura e m’asciugò il sudore sulla schiena, formando sulla mia pelle grumi di migliaia d’insetti morti, e io capii che la giungla ti sopraffà e tu ti immedesimi in essa. (…) Per la prima volta in vita mia il clima fu qualcosa che non mi toccava, non mi accarezzava, ghiacciava o impregnava di sudore, ma qualcosa che diventava me stesso”. E’ Jack Kerouac quando, quasi alla fine del suo viaggio On the road, descrive l’esperienza notturna in Messico, perso insieme al febbricitante Neal nel buio umido del Tropico del Cancro. Una scrittura che odora di maglietta sporca di sangue dei mosquitos. O almeno è così che la ricordo.
E sempre in Messico si sprigionano gli umori e le temperature più calde dei due protagonisti del film di Hawke. Già, perché ad agitare rimangono forse più le immagini che le molte e pur adeguate parole. I corpi imperfetti, riconoscibili nella loro normalità, dei due giovani, i loro avvicinamenti, le rincorse, i rinvii e gli incontri. Si respirano le incertezze, si misura la temperatura degli slanci e della passione, sensuale, si guarda la sincerità cercare di avere la meglio sulle tante possibili rappresentazioni, sulle tante finzioni.
William è un attore che alla soglia dei ventun’anni si innamora di Sara, un’aspirante cantante di origini ispaniche. Lui si dice convinto di voler iniziare una storia, lei rimanda all’infinito la scelta. Lui è intenso ma anche teatrale, sincero ma tendente ad idealizzare “l’amore romantico”, non a caso è un attore. Lei è misteriosa e contraddittoria, forse ha una stanza del tesoro o forse no, ma in ogni caso non può o non vuole fare posto a William. Se non per una breve e bruciante settimana, in cui si daranno l’uno all’altra senza riserve e paure, senza ruoli che non siano parte della propria ricerca di autenticità e di essenza.
Ci sono sudore e pelle esposta nella stanza, e desiderio e coraggio, e gioco e amore, tutto impresso sulla grana grossa della pellicola, a dar spazio alle macchie di colore – il rosso e l’arancione, il giallo e il nero. Nessun colore neutro a sbiadire il tono. La macchina a mano a inseguire il movimento dei corpi nel reciproco cercarsi e vedersi, con il fuori fuoco a ben rappresentare le oscillazioni. Ci si tocca il palmo delle mani, si guarda in giro il palmo dei compagni di cinema cercando conferme: l’atmosfera, la temperatura del film è diventata in qualche modo materia vera, in una comunicazione per immagini che produce senso: anche tu? verrebbe da chiedere. C’è un odore anche qui, insomma. Considerazioni “impressionistiche” certo, e ben poco definite, racchiuse forse in bella forma in un’altra frase del rabdomante Kerouac: “l’atmosfera ed io diventammo un’unica cosa”, atmosfera nel senso proprio di aria che si respira.
Ma torniamo ai fatti. Sara dopo aver vissuto l’amore con Will lo allontanerà. Forse per paura, forse per immaturità, forse perché così vanno le cose e soprattutto a vent’anni. Da qui, dal dolore per il rifiuto e la perdita, inizierà il percorso a ritroso di William che lo porterà, attraverso una messa in discussione mobile e vitale, a confrontarsi con i propri genitori, e a diventare finalmente “orfano”. E’ proprio l’abbandono di Sara, infatti, dopo un periodo di disperazione e dolore, a spingerlo in qualche modo ad affrontare l’abbandono subìto precedentemente da parte del padre.
Tanto il padre, nella sua debolezza, quanto la madre, nella schiettezza dura (regala al figlio in difficoltà un paio di scarpe da adulto piuttosto che un abbraccio), e precedentemente Sara con il suo essere sfuggente, il suo darsi a metà (sembra una storia d’amore tra due persone entrambe segnate ma che camminano in punti diversi della stessa strada, uno avanti, seppur costretto ad inseguire, l’altra dietro, ma con in serbo una conferma, una rassicurazione, in forma di canzone alla fine) non riescono a dare a William il posto più caldo: “tutti dicono che puoi essere te stesso ma poi vogliono soltanto che tu sia forte”. E lui, con il suo movimento, con il suo darsi (regala cioccolatini, chiede consigli, telefona più del moderatamente consentito, prende un treno), riuscirà a capire tutto questo e a trovare la libertà e la forza necessaria a sostituire il padre alla guida della macchina, a poter innamorarsi ancora. “Yesterday is here” canta con voce roca Cat Power. “Non è mai troppo tardi per essere giovani” scrive Tom Robbins alla fine dei titoli di coda.
Ed ecco che il “posto” del titolo originale trova la sua forma più compiuta: un posto, uno Stato esistenziale che si può cercare, avanti e indietro e ancora avanti nel tempo col battito del polso in primo piano, piuttosto che ricordare.
Il regista, prima scrittore e prima ancora attore negli “affini” Prima dell’alba (1995) di Richard Linklater e Reality bites (1994) di Ben Stiller, ha rappresentato nel film molto di quanto raccontato nei suoi due libri, di un’autobiografia più o meno nascosta (la verbosità e una certa teatralità fanno la loro parte nel rendere il film credibile ma anche distaccato, a tratti divertente. Si pensi alla scena del dramma telefonico risolta in riso piuttosto che in pianto). Forse è proprio per abbassare la temperatura a rischio corto circuito da eccessiva gravità che lo stesso Hawke in un’intervista ha raccontato, citando Kundera, che “le traduzioni sono come le donne: belle ma infedeli, e se sono fedeli non sono belle”. Eh sì, che a ripensarci sarà stato forse proprio il timore di una certa idealizzazione romantica a rendere l’aria del cinema, tutto d’un tratto, un po’ troppo dolciastra.