di Fabrizio Croce/La semplicità quando si parla di melodramma è probabilmente il risultato più alto e complesso a cui aspirare. Se parliamo poi di un genere che ha attraversato e continua ad attraversare trasversalmente e talvolta anche in maniera obliqua la diversa e stratificata idea di genere cinematografico in era post-post moderna, con una propensione particolare per il Western (iconografici Jennifer Jones e Gregory Peck che si uccidono e si baciano contemporaneamente nel kingvidoriano Duello al sole) e l’Horror (Geena Davis che uccide, tra repulsione e pietà, l’amato ormai mostruosamente mutato Jeff Goldblum nel cronenberghiano La Mosca), puntare a ridurre e condensare tutta la carne al fuoco che si vuole mettere ad ardere sull’altare di una narrazione e di un’estetica bigger than life è un rischio ancora più grosso, con la possibilità di dover spazzare via la cenere e accorgersi che ormai non è rimasto più nulla a bruciarvi sotto.
Ovviamente Pedro Almodovar è uno che, avendo ballato con il melò per tutta la sua vita cinematografica e contribuito a ridefinirlo nel nome di un desiderio carnale non più evocato o suggerito, ma mostrato in tutta la sua rivoluzionaria carica anti- repressiva e dionisiaca di corpi alla ricerca di identità, può permettersi di prendere il genere e farne quello che vuole, applicarne qualsiasi variazione senza timori reverenziali. D’altronde è riuscito persino a far assurgere il proprio cognome al rango di aggettivo, il melò almodovariano, che ha generato una devozione sempre più vasta negli spettatori per un linguaggio già rivolto, per sua natura, al culto popolare.
Così, dopo la stravaganza senza capo né coda del divertissement Gli amanti passeggeri, rifiutato in maniera unanime e compatta dal suo popolo di fedeli (pubblico e critica) e la precedente eccentricità ben congegnata ma macchinosa e un po’ fine a se stessa de La pelle che abito (potente però l’idea di tramutare il corpo del maschio stupratore in quello di una donna violentata e abusata!), Julieta appare non tanto come un ritorno a una ricerca del rigore e dell’essenzialità, quanto un film punitivo e intriso di una tristezza piatta, lineare, come il diagramma di un battito cardiaco che non pulsa più.
Eppure Julieta si apre sul primissimo piano di una maglia rossa a pieghe che sembrerebbe un cuore nell’atto di contrarsi, prima di aprire l’inquadratura sul volto bello ma spento di una donna bionda intorno ai cinquant’anni. Lei è Julieta e il film è semplicemente la sua storia, quella di un’involuta eroina melò che ha perduto, senza comprendere profondamente il senso di ciò che le è successo, prima il compagno e poi la figlia. Come succedeva in Tutto su mia madre e in Volver, la narrazione ha dunque l’andamento di un’indagine della memoria e dei sentimenti, il cui punto focale è paradossalmente il personaggio di Julieta, che sembra avere questa incapacità di fare spazio dentro se stessa per vedere e accogliere la realtà fuori da sé, in particolare la scelta radicale e apparentemente ingiustificata della figlia di non volerle parlare, vedere o anche solo farle avere sue notizie per dodici anni. Anche la lettera che le scrive, e che non può inviarle perché di fatto non sa dove si trova, è un ripiegamento e una fuga dentro il proprio passato, non c’è volontà di di comprenderlo e superarlo, un atto sterile e passivo per legittimare lo status di vittima, schiacciata da sensi di colpa, fantasmi e ossessioni in cui vaga sperduta e distratta come per le strade di Madrid.
La sensazione sgradevole e fastidiosa, che ho provato da amante del melò (almodovariano e non), è che l’espressione monocorde e sconfitta di Julieta rappresenti la stanchezza di Pedro cineasta, la mancanza di una direzione sfrontata, decisa, provocatoria anche nell’affidarsi alla classicità in un momento in cui stanno emergendo nuove, scintillanti fenici del melodramma da ceneri ancora non sopite (ogni riferimento allo slabbrato, incoerente, selvaggio e vitalissimo cinema di Xavier Dolan non è casuale) e nel caso di quest’ultimo Almodovar non c’è neanche il piacere di trovare la maniera del grande maestro, il compiacimento godereccio dell’esercizio di stile.
Julieta, nella doppia versione del passato e del presente, è un personaggio che aderisce superficialmente all’immagine, non si attacca anima e corpo come hanno saputo fare le varie Pepa, Manuela, Raimunda e le altre ragazze del mucchio di Pedro. Perfino le scene di sesso, a cui Almodovar ha sempre saputo dare tutta la consistenza e il brivido della carne tremula, appaiono tirate via e stanche, e ci piacerebbe dire per un inedito pudore e non per un’inconsueta sciatteria che fa il paio con un disinnamoramento generale nei confronti dell’immagine, in quanto tutto il film è avaro e limitato dal punto di vista estetico.
In alcuni momenti mi sarebbe piaciuto che tutte le approssimazioni e i vuoti narrativi di Julieta fossero lo specchio rotto, il riflesso sbiadito, il detour obbligatorio di un film nel film, come quello che il regista non vedente de Gli abbracci spezzati cerca di portare a termine, ricostruendo le sequenze mancanti.
Invece la mancanza è proprio il segno sotto cui si muove Julieta, a cui non ci si affeziona abbastanza per poter compensare con l’immaginazione ciò che non appaga il nostro bisogno di stupore e tremori, ma ci lascia sul ciglio di una strada (non troppo) sedotti e abbandonati.
No, caro Pedro, siamo rimasti i figli confusi di una generazione che ha preso un tram che non si chiama più Deseo e che porta nel non luogo dove vanno a morire e ad esaurirsi tutte i nostri fantasmi e le nostre ossessioni, come faceva Thora Birch, adolescente spaventata dalla sua inadeguatezza all’ingresso nell’età adulta, in Ghost World: forse da te, che sei stato il cattivo maestro di un’educazione sentimentale ed erotica, ci saremmo aspettati di approdare a dei nuovi Campi Elisi, accompagnati magari da un’altra Blanche/ Vivien Leigh di Tennesse Williams a celebrare la fiera (in)attualità del suo motto esistenziale ed estetico:“Voglio magia e non realismo!”.
Al contrario e chissà perché l’ultima strada che imbocca la tua Julieta, mi ha fatto pensare al finale di un molto convenzionale e schiettamente ruffiano melò hollywoodiano e patinato, Il principe delle maree, di e con Barbra Streisand, sua maestà delle cantatrici e talvolta registe strappalacrime: in quel caso, il povero Nick Nolte, dopo la fuga d’amore immersa in patinati flou e gradazioni di rosa con Barbara, tornava dalla famiglia ufficiale, con il sussurro del cognome di quell’amore sacrificato nella testa, che si faceva rimpianto durante il ritorno a casa in macchina… nel tradurlo in chiave cinefila, anche nella mia testa si è fatto spazio il rimpianto di un altro titolo mentre guardavo il finale del tuo film, e non credo che ti avrebbe fatto piacere:
Grazie Fabrizio per questo viaggio nel mélo e nel cinema di Almodovar condotto con passione e maestria!!