La bugia più grande della Storia. Postulato alla base di questo documentario-inchiesta è che non ci sia niente di più comico e stravagante delle antiche leggende che sopravvivono nella forma delle moderne religioni, favole utili ad addomesticare le paure collettive. Conseguentemente il titolo inglese, Religulous, è un portmanteau, una parola “macedonia” usata per fonderne due, religion e ridiculous. Sfugge pertanto il senso del ritocco al titolo nell’adattamento italiano. Ma, ahinoi, siamo abituati; somma riconoscenza ci sembra comunque dovuta alla Eagles Pictures, per il coraggio dimostrato nell’aver distribuito il film in trenta copie, nell’Italia atrofizzata dai diktat degli ayatollah nostrani e dalla pelosa remissività di buona parte della classe politica.
La doppietta costituita dal già regista di Borat, Larry Charles, e dall’attore-protagonista, Bill Maher, è di quelle caricate a pallettoni e col grilletto facile.   
Maher, stand-up comic caustico e scorrettissimo dei venerdì sera televisivi con lo show Real Time with Bill Maher, a metà strada tra il nostro Daniele Luttazzi e il leggendario Lenny Bruce, intraprende un pellegrinaggio nei luoghi sacri della terra e tra fedeli e officianti di ogni credo. Scopo dichiarato: mettere i suoi interlocutori con le spalle al muro, dimostrando con grandi fendenti d’irrisione, la natura menzognera e irrazionale di tutte le religioni, da considerare strumenti di oppressione delle coscienze e ostacolo decisivo sulla via del progresso.
La produzione del film si è avvalsa di vari stratagemmi per ottenere libero accesso ai luoghi sacri e il rilascio delle interviste; Maher ha rivelato candidamente che al momento della richiesta di concessione delle riprese, era dichiarato un titolo falso, che evocasse la presunta innocenza e solennità del progetto : “A Spiritual Journey”.

 

 

 

 

 

 

 

 Prologo (ed epilogo) del dissacratorio periplo, la valle di Meghiddo, in Israele, nel luogo preciso dove secondo una tradizione biblica dovrebbe avvenire l’Armageddon, la battaglia decisiva tra le forze di Dio quelle di Satana profetizzato nell’Apocalisse. Segue un flash autobiografico in cui Maher, padre cattolico e madre ebrea, svela di aver ricevuto un’educazione formalmente cattolica, anche se l’ottica ebraica spesso tendeva ad affiorare – “quando andavo a confessarmi, portavo sempre con me un avvocato!”. Questo almeno finché i genitori di Bill abbandonarono la Chiesa, avendo iniziato ad avvalersi di sistemi per il controllo delle nascite.
Parte così un frenetico viaggio intorno al mondo che ci ricorda da vicino un altro irriverente docu-film di montaggio, quel Where in the World is Osama Bin Laden di Morgan Spurlock, dove l’espediente di mettersi sulle tracce del nemico pubblico numero uno, svelava la sconclusionata inettitudine della politica anti-terrorismo dell’amministrazione Bush.
Maher passa in rassegna, pescando a casaccio nel mucchio, culti strampalati e liminari, sebbene talvolta numericamente rappresentativi, e religioni più istituzionali e storicizzate; interroga, provocandoli, folkloristici predicatori rubagalline, pericolosi invasati fondamentalisti e posati sacerdoti delle tre religioni monoteistiche; non distingue perché li considera tante facce della stessa medaglia e il suo intento e quello di offrirne una rappresentazione similmente grottesca.

Qualche esempio. Al Sensi Coffe Shop di Amsterdam c’è Ferre van Beveren, autoproclamatosi Ministro del Culto della Cannabis (esiste davvero, giuro!). Domanda del comico: “Che cosa pensi quando si dice che l’uso cronico di cannabis indebolisca la memoria a breve termine?”. Pausa catatonica, lungo tiro di joint e risposta del Ministro: “…Penso… che… sia… così” – Stacco di montaggio su un’identica inquadratura: “credi che l'uso cronico di cannabis possa indebolire la memoria a breve termine? …Penso… di… sì…”.
Ancora Amsterdam, Habibi Hana, un bar gay. Fin qui nulla di strano. Si tratta però di un bar gay e musulmano, gestito dall’omo-attivista Jamal (Jimmy) Turkmani e dal suo fidanzato. Coraggiosi, certo, ma Maher non perdona: “voi ragazzi sì che avete le palle… ma quant’è grande la comunità gay musulmana qui ad Amsterdam? Voglio, dire mi sa che il giovedì non è proprio la serata gay… (i due sembrano gli unici avventori del locale) mi auguro almeno che tra voi due ci sia una bella intesa sessuale, altrimenti…”.
 E’ la volta degli Stati Uniti, patria di tele-predicatori da baraccone e agguerrite comunità di base neo-evangeliche.  Qui il comico ha facile gioco in uno scambio di vedute con almeno un paio di novelli Gesù. Uno è l’attore impiegato all’Holy Land, parco a Tema in Florida, sorta di Disneyland della fede dove i turisti vengono ad assistere alla rappresentazione in stile musical della passione e crocifissione; l’altro, un Jesus-Miranda portoricano dall’aspetto poco raccomandabile, che rivela di aver ricevuto l’investitura a nuovo Messia da due angeli messaggeri, ed ora conta su uno stuolo di seguaci, loro sì, in fondo, autentici poveri cristi. E ancora. Mormoni che indossano uno speciale abbigliamento intimo e che credono che per andare in paradiso ci sia bisogno di una password. Ebrei ortodossi che progettano apparecchiature kosher per aggirare i divieti che il giorno del Shabbath imporrebbe a tutta una serie di attività umane, come premere un pulsante in ascensore.
Per finire gli esempi con un salto ad Hyde Park Corner dove, su tribune improvvisate, si esercitano tradizionalmente oratori e predicatori di ogni credenza, opinione e disordine psichico. Un sostenitore di Scientology sta parlando al divertito auditorio: “Xenu ci ha portato qui sulla terra 75 milioni di anni fa, ci ha ammucchiati intorno a vulcani e li ha fatti esplodere con bombe all’idrogeno… dovete liberarvi dagli innesti dei dittatori extraterrestri. Procuratevi un e-meter!” Qui Bill Maher coglie il momento propizio di generale ilarità per uno dei tanti colpi bassi del film: ”Già… Scientology, tutte cazzate, non è forse vero? Certo. Invece Gesù che nasce da una donna vergine, e la colomba, e il serpente parlante nel giardino, quella sì che è roba forte!!”
Insomma, sancita la religiosità come forma effettiva di disturbo mentale, sarebbe ipocrita limitare il giudizio d’infermità ai soli seguaci di Ron Hubbard, e non estenderla anche ai sostenitori delle religioni maggiori, perché si tratterebbe di una diagnosi basata solo sul maggiore o minore consenso.

 Con tempismo fortuito Religiolus arriva come una salubre boccata d’ossigeno sugli schermi del nostro Paese dove, per compiacere un clero oscurantista, si è giunti a calpestare il diritto costituzionale e il principio di laicità nel caso Englaro, o in cui si pretende di licenziare un insegnante perché ha tirato giù un crocefisso
dalla parete dell’aula. Una religione di Stato di fatto dove il dibattito serio, quando c’è, riguarda soltanto cattolici clericali contro laici, in barba al pluralismo religioso che ogni democrazia avanzata dovrebbe tutelare. (Vi rimando allla trascrizione della bella tavola rotonda in occasione dell’anteprima italiana di Religiolus).  
E’ onesto asserire qui, se ancora vi fossero dubbi, che chi vi scrive oscilla tra ateismo e agnosticismo e, pur non sposando interamente la tesi della tossicità assoluta, ritiene marxianamente la religione, una sostanza stupefacente, da assumere in modiche quantità per non compromettere le migliori facoltà razionali della specie.
Dal canto suo, Bill Maher, con retorica diderotiana, insegue il suo sogno di affrancamento dell’umanità dalla necessità del trascendente. Sostiene l’insita disonestà delle religioni quando pretendono di dare risposte a interrogativi a cui è impossibile rispondere. Da liberale e libertario quale si definisce, considera i sistemi religiosi come forme di burocrazia che separano l’uomo dal potenziale rapporto diretto con Dio.
 Soprattutto i brandelli seri del suo discorso contengono due dati di fatto storicamente inoppugnabili, ossia la responsabilità diretta della religione in una catena infinità di guerre, violenze e sopraffazioni, e la consapevolezza che nel prossimo futuro, il fondamentalismo e l’intolleranza che le sono connaturate, potrebbero innescare spirali di odio capaci di attuare, in ultimo, la parte più devastante della profezia dell’Armageddon, senza la sua prospettiva salvifica. In ultima analisi propone il dubbio metodologico come sistema di pensiero e lo rende esplicito nel finale del film, dove però la predica aconfessionale assume forse toni troppo rigidamente assertivi.

Se molti dei contenuti del film, nonostante forzature e approssimazioni, costituiscono benefiche provocazioni, soprattutto in società non ancora interamente secolarizzate come la nostra, e se il ritmo generale delle trovate comiche nel complesso denota una sua indubbia efficacia, sul piano del linguaggio filmico, Religiolus è invece ben misera cosa: una variante fiacca e convenzionale del documentario a tesi alla Micheal Moore, con interviste scomode e pilotate e innesti sfilacciati di materiale di repertorio usato in senso banalmente analogico. La trovata malevola di condire le interviste di didascalie sovrimpresse che confutano o contestano la veridicità e la ragionevolezza delle opinioni raccolte, pur ottenendo un immediato effetto di scherno, appare un espediente troppo facile e forzato, e finisce per ritorcersi contro il protagonista, rivelandone una certa dose di arrogante supponenza.

D’altra parte il flusso di coscienza del vulcanico Maher talvolta si giova dell’immediatezza di scrittura per accostamento che la tecnica del film di montaggio consente, regalandoci lampi esilaranti.  Si pensi al botta e risposta tra il comico e un sempre più irritato Jesus portoricano che prova a fare buon viso a cattivo gioco, intercalato dal retro-pensiero di quest’ultimo nella forma di un Al Pacino-Scarface, insultante e minaccioso; o ancora al taglio alternato tra ministri del clero e rock stars, in cui vediamo un concerto dei Kiss accostato a processioni di cardinali, rabbini e mullah, a sottolinearne la medesima vacuità spettacolare e il glamour impiegato come strumento d’incanto collettivo.

 Il limite di Religiolus come prodotto film, sta forse proprio nella sua troppo diretta filiazione dal linguaggio dell’one-stand comedy, genere di teatro-cabaret in cui il performer è dato letteralmente in pasto al pubblico e dove l’unica regola è riuscire a strappare un flusso di risate ininterrotto, pena, finire essi stessi oggetto del dileggio.
Bill Maher, a dispetto dei tempi e delle strutture narrative del cinema, sembra aver scritto le battute di Religiolus come se dovesse esibirsi per la prima volta  di fronte a un pubblico difficile: ha cercato di conquistarlo con furbizia e mestiere, imponendosi un ritmo indiavolato, nel tentativo di colmare ogni tempo morto con trovate e gag, a volte “telefonate” e non sempre all’altezza del suo acume.
Dal confronto con il più riuscito Borat, del medesimo regista, emergono in maniera ancora più netta gli effetti dello spregio dello specifico cinematografico, avvalorando l’impressione che a Larry Charles, pesantemente influenzato dalla strabordante personalità di Maher, sia sfuggito a tratti il controllo del mezzo. 
Impermeabile a ogni verità indiscussa, il comico Bill Maher si è fatto alla fine imbrigliare dall'unico dogma che non poteva permettersi di ignorare, la legge crudele del one-man show.

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