Ordinare e ricomporre oggi, in maniera filologica, le tracce dell'eredità etica ed estetica della Nouvelle Vague è come catalogare le costellazioni dopo il Big Bang: fenomeni luminosi, palesi, emozionanti ai quali compete una ricerca laboriosa, affascinante, indefinita. L'esempio fertile e continuo dei giovani turchi parigini non smette di stupire: i ventenni dei Cahiers, riversando coerentemente la teoria nella pratica, hanno contagiato del loro entusiasmo almeno altre quattro generazioni in tutto il mondo.
Nei due giorni di convegno organizzati nell'ambasciata di Francia dall'Ente dello Spettacolo di Dario Edoardo Viganò, storici del cinema del calibro di Adriano Aprà, Alain Bergala, Suzanne Liandrat-Guigues, Jean-Louis Leutrat, Giorgio De Vincenti e Antonio Costa hanno rimesso in discussione linee di ricerca e acquisizioni critiche. E sono stati citati praticamente tutti i nomi degli autori più noti del cinema mondiale: indice, forse, di un problema metodologico.
Attraverso i “nuovi” cinema, tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi dei Sessanta, si globalizzò l'insofferenza ad ogni autoritarismo: politico e artistico. La Nouvelle Vague non fu avanguardia, fu una Rivoluzione. Il gusto, condiviso, per i giochi citazionistici denota, con compiacimento, paternità e filialità, ma esiste sicuramente, per la ricerca storiografica, un rimosso da rinvenire (magari Andy Warhol, Stanley Donen, Mizoguchi, Billy Wilder, Isidore Isou). Non fu un movimento, lo sappiamo, ma un complesso sistema di affinità d'ispirazioni che oltre a frantumare la narratività classica riunì personalità disparate, valicò i confini parigini, superò la cortina di ferro e discese all'altro emisfero; un’attitudine, un metodo che traboccarono dalle sale alla società; un'atmosfera, azzardiamo, dove gesti tecnici simili davano risultati estetici diversi, ma rendevano allo spettatore uguali sensazioni, evocavano intuizioni, fomentavano esaltazioni. Perchè le tecniche non sono solo comunicazione, ma fare etico.
Truffaut, Godard, Chabrol, Rivette, Resnais, Malle e altri rivalutarono Hitchcock e Hawks e, per loro tramite, insegnarono al mondo la centralità della messa in scena; da Nicholas Ray impararono la compatibilità tra genere e soggettività; da Renoir la sdrammatizzazione e il realismo antimimetico; di Bazin, padre spirituale, appresero il realismo come “tirar fuori”, come un “mostrare” complesso che solo in parte coincide con il Neorealismo italiano; e poi, sempre da Bazin, la portata etica del piano sequenza e della profondità di campo in opposizione al decoupage classico.
Da Rossellini capiranno come prodursi i film da sé, a basso costo, con scarsi mezzi. Adriano Aprà, il più rosselliniano degli studiosi italiani, racconta come allora, senza voler essere evoluzionisti, il bisogno di cambiare le regole del gioco coincise con innovazioni tecniche che permisero di cambiare i modi di produzione. Il fotofluid per l'illuminazione (le lampade che consentono la luce diffusa nell'ambiente di ripresa) permise di cambiare l'inquadratura senza bisogno di rifare la luce: si poteva girare più rapidamente, con pellicole poco sensibili e quindi meno costose. Rossellini le usò in Viaggio in Italia (1953) e Godard le usò in Fino all'ultimo respiro (1960). Le macchine da presa insonorizzate e il leggerissimo Nagra (sistema di registratore del suono che sostituì i camion!) permisero la registrazione del suono in presa diretta con una troupe minima: il Neorealismo è invece tutto doppiato, i primi due film di Godard sono doppiati. La “Pressa Catozzo” (invenzione del montatore romano Leo Catozzo che, allergico all'acetone, escogitò un nuovo e più semplice sistema per giuntare la pellicola) permise nuove e più economiche soluzioni di montaggio. Lila Herman racconta come si arrivò al Jump Cut: il produttore di Fino all'ultimo respiro non voleva un film di due ore e Godard non voleva tagliere alcuna scena. Così tagliò all'interno delle scene stesse e molte recensioni dell'epoca parlarono di errori o sgrammaticature. E infine lo zoom: Rossellini é il primo che usa il tele come obiettivo principale di un film in Era notte a Roma (1960).
Secondo Giorgio Tinazzi tra le conquiste indiscusse del Nuovo Cinema ci sono la problematizzazione del ruolo del regista e dello sguardo e la fine dell'idealismo sul ruolo d'autore: l'autore non è solo soggettività ma un “modus operandi” nella collettività dell'opera filmica. La riabilitazione della parola: elemento della messa in scena per Rohmer, elemento grafico e di montaggio per Godard, materia per Straub-Hulliet. La non differenziazione aprioristica tra opere primarie e secondarie. L’anti-intellettualismo. Il concetto di realismo antimaterialista e antiriproduttivo. L’autoreferenzialità e il metalinguaggio (anche in De Vincenti).
L’originarietà manifesta non influenza l’originalità, anzi: la fonte diviene commento e il cinema parla di sé mentre mentre riscrive la sua Storia. In un intervento poco scientifico e volutamente non filologico, Vito Zigarrio ha cercato di tessere una rete di collegamenti tra cinema classico hollywoodiano, Neorealismo, Nouvelle Vague e il Nuovo Cinema italiano degli anni Sessanta. Partendo da Prima della rivoluzione (1964) si possono individuare innesti, debiti, riferimenti, ammiccamenti che legano Europa, America e Sud America in una prima globalizzazione dell’immaginario mondiale. Giusto e importante il ricordo della figura precorritrice di Gianni Amico: sceneggiatore, regista, animatore culturale, appassionato cinefilo e collezionista che tanto ha dato alla nostra cultura cinematografica.
Anche se la ricerca accademica appare troppo impostata sui gesti tecnici e poco sui modi di produzione e sull’incidenza dei condizionamenti commerciali, appare chiaro come i giovani registi esordienti che contribuirono, in tutto il mondo, alle nascite dei vari “nuovo cinema” avevano capito che un linguaggio del cinema da studiare non esiste: esiste solo un insieme di regole artigiane usate su scala industriale. Fuori dagli Studios non esistono regole. A distanza di 50 anni dalla proiezione festivaliera de I 400 colpi, la consacrazione odierna di Truffaut (e la generale “ignoranza” di Godard) testimonia di un conformismo culturale che ha bisogno di modelli rassicuranti e archivia nell’oblio il gesto di essere in controtedenza, il gesto di mediazione tra passato e futuro, l'approfondimento teorico prima di quello pragmatico. L’eredità come sopravvivenza: in tempi di postmoderno, alla perdita dello spirito d’opposizione resiste il gesto tecnico e scenografico come affermazione di soggettività; e si fa materia d'immaginario (vedi The truth about Charlie di Jonathan Demme e tanti altri titoli). Ogni jump cut, ogni long shot, ogni sguardo in macchina, ogni corpo sacralizzato dalla Nouvelle Vague riporta per allegoria ai “giovani turchi hitchcokiani” e alla nascita della modernità cinematografica (che in realtà risale almeno a Renoir) trascurando l’aria del tempo, la collettività: la Guerra Fredda, il terrore nucleare, il conformismo, il moralismo, le realtà socialiste, i boom econ
omici, l’incipiente atomizzazione sociale e la frantumazione culturale. La morte di tutti i contadini e di tutti gli artigiani, come scriveva Pasolini. Eppure è vero: il bianco e nero di quella immaginaria Parigi di fine ’50 è alle radici delle trasformazioni sovrastrutturali del secolo scorso.