Due pesanti contenitori di cartone nero. È quanto Gorbaciov consegnò al presidente polacco Jaruzelski il 13 aprile del 1990 ammettendo per la prima volta la responsabilità di Stalin nell’eccidio di Katyn. In quegli scatoloni i nomi dei polacchi massacrati, circa 22mila ufficiali dell’esercito ma anche civili appartenenti all’intellighenzia del paese. Nel 1939, in seguito al patto Molotov – Ribbetrop, la Germania di Hitler e l’Unione sovietica di Stalin si spartirono la Polonia con conseguenze imprevedibili per quei militari catturati nel territorio sotto il controllo russo. Divennero prigionieri di guerra e Stalin stesso firmò (1941), probabilmente nel timore che potesse ricostruirsi una forza di opposizione, l’autorizzazione all’NKVD (polizia politica) per la loro eliminazione. Nell’aprile del 1943, quando i precedenti patti erano saltati, furono i tedeschi a scoprire nella foresta di Katyn le fosse comuni di uomini con la divisa polacca uccisi con un colpo alla nuca e accusarono subito i sovietici a scopo propagandistico. Ma oramai Stalin era un alleato dell’Occidente e su quei morti calò il silenzio.
Su tutta questa intrigata vicenda Andrzej Wajda – il più importante cineasta polacco insieme a Zanussi, Kieslowsky, Polanski – ha lavorato di intelligenza, con acume e arguzia, tenendo presente a se stesso il peso dei propri sentimenti e di quelli collettivi. Le trappole di una visione ideologica, e quindi contro il “mostro russo”, o anche il rischio che il film potesse essere strumentalizzato politicamente, erano ipotesi del tutto presenti. Non è indifferente ricordare che Wajda perse il padre a 13 anni a Katyn e insieme alla madre attese per anni il suo ritorno ignorando per molto tempo la verità, e poi dovette nascondere per decenni questa “macchia familiare” per non rischiare la propria carriera. Dunque la ricostruzione storica ha un punto fisso che non perde mai di vista e intorno al quale tutto ruota, ed è il dolore singolare delle persone sovrastato dalle intenzioni delle macchine politico-militari. Nella costruzione della sceneggiatura ci sono, oltre all’ispirazione tratta dal romanzo Post mortem di Andrzej Mularczyk, i diari dei familiari che aspettavano invano il ritorno dei prigionieri. Tutta la struttura di Katyn che copre diversi anni è tenuta insieme da coraggiose figure di donne-Antigone, incapaci di arrendersi all’idea che i propri figli, compagni, mariti siano scomparsi nel nulla.
Wajda non è un ingenuo nell’utilizzo delle immagini, ne conosce il potere e il fascino, e per questo cerca (grazie per esempio a dei filmati d’epoca) di costruire una visione prospettica, dove le verità possano confrontarsi. Non si tratta di un gioco intellettuale perché tiene sempre presente a se stesso il valore e il peso delle vittime. C’è inoltre la tradizione cristiana a sostenere un discorso che non si vuole volgere in odio verso gli assassini: in questa direzione emerge la figura dell’ufficiale sovietico che salva una donna e una bambina. In lui il regista sperimenta il passo della Bibbia in cui si dice: basta un solo uomo giusto perché il Signore perdoni tutti. L’insieme non manca di romanticismo, inutile negarlo, senza però sconfinare in qualcosa di astratto. Resta forte infatti l’adesione delle immagini alla terra, alle vicende umane, al rendere giustizia con misericordia alla memoria dei morti e dei vivi. Una poesia di Zbigniew Herbert, dedicata allo zio morto a Katyn, intitolata Bottoni, può forse aiutare a capire il senso di questo film: Solo i bottoni irriducibili/testimoni del crimine hanno vinto la morte/risalgono dal fondo in superficie/unico monumento sulla loro tomba//stanno a testimoniare Dio terrà i conti/e avrà pietà di loro/ma come possono resuscitare i corpi/se sono parti di terra collose//trasvolato è un uccello una nuvola fluttua/cade una foglia la malva spunta/ed è silenzio nei cieli lassù/e il bosco di Smolensk fumiga bruma//solo i bottoni irriducibili/voce potente di silenti cori/solo i bottoni irriducibili/bottoni di cappotti e di uniformi.
… e la sinistra che fa? zitta…
che dovrebbe fare? scendere in piazza per katyn? dire: siamo colpevoli anche noi per quanto fece stalin durante la seconda guerra mondiale? ma non le sembra assurdo? non le sembra una follia, anzi meglio: ideologico e strumentale, questo andare a cercare responsabilità storiche quasi fossero peccati personali?