La 59esima edizione della Berlinale ha battuto tutti i record in termini di affluenza. Mercoledì scorso, a metà della competizione, il numero di spettatori (270.000) era già superiore alla cifra finale dell’anno scorso (240.000). Il pubblico ha potuto affluire in massa anche grazie alla presenza di un’ulteriore sala, il Friedrichstadtpalast, capace di accogliere ben 1700 spettatori. Ma il successo di un festival, come é risaputo, si riflette soprattutto nella qualità dei film in competizione e nella scelta dei vincitori.
Oggi pomeriggio saranno attribuiti gli ambiti “Orsi” e sapremo finalmente quali, fra i diciotto film che hanno preso parte alla competizione, sono riusciti a sedurre la giuria del festival. Questo compito non sembra a priori essere semplice vista l’eterogeneità delle opere presentate quest’anno in concorso. Passando in rassegna i film visti finora – Tatarak di Andrzej Waida e Eden à l’Ouest di Costas Gavras attendono ancora la loro prima – si stenta a riconoscere i criteri di fondo che hanno guidato questa selezione. Presieduta dall’attrice inglese Tilda Swinson anche la giuria è composta da personalità assai contrastanti. In attesa del verdetto finale ci limiteremo ad una valutazione – rigorosamente soggettiva – dei film in concorso.
Il cinema francese ha avuto il merito di presentarci quest’anno tre film d’autore degni di nota. Il più originale e complesso è Ricky di François Ozon. Il film ci racconta la storia di una famiglia ordinaria in cui nasce un bebé straordinario dotato di ali. Ozon osa mischiare uno stile realista con degli elementi fantastici creando così un’atmosfera tesa e misteriosa non priva di momenti comici. Ricky è insomma un film singolare e audace. Certamente più convenzionale, anche se molto ben fatto, In the elecric Mist di Bertrand Tavernier, un film poliziesco ambientato in Louisiana. L’opera si avvale di una fotografia straordinaria e dell’ottima interpretazione di Tommy Lee Jones nel ruolo di un commissario di polizia duro e cocciuto, ma generoso e idealista al contempo. London River del regista franco-algerino Rachid Bouchareb è un film a piccolo budget. La trama ci racconta le vicissitudini di due genitori, una donna inglese e protestante ed un uomo senegalese e mussulmano, alla ricerca dei loro rispettivi figli scomparsi a Londra in seguito agli attentati del 7 luglio 2005. Nonostante una sceneggiatura a tratti un po’ macchinosa, London River è un film profondamente commovente che deve molto alle interpretazioni sublimi di Brenda Blethyn e Sotigui Kouyate. Si tratta di uno dei rari film in competizione che sembra essere piaciuto sia alla critica che al pubblico ed è certamente da tenere d’occhio.
Un altro film su questo stesso registro è Gigante, opera prima dell’argentino Adriàn Biniez. Ambientato a Montevideo, è la storia di Jara un ragazzo dal corpo enorme alla ricerca dell’amore e della felicità. In questa commedia agrodolce basata su dei dialoghi arguti e laconici, il regista riesce a creare un personaggio originale e toccante. Gigante, sobrio e dall’ottima sceneggiatura, ci ha rivelato un giovane regista sensibile ed è stato molto ben accolto.
Tre i grandi registi inglesi presenti: Stephen Frears, Sally Potter e Richard Loncraine, quest’anno in competizione, hanno tutti curiosamente fatto ricorso a delle star americane nei loro film. Stephen Frears ci trasporta con Cheri, adattamento dell’omonimo romanzo di Colette, nella Parigi della Bell’Epoque, per raccontarci la vicenda di Léa, una prostituta di lusso non più giovanissima, e del suo giovane amante Cheri. Stephen Frears è un maestro di questo genere, basti ricordare il suo famosissimo Relazioni pericolose (1988). Vent’anni dopo sceglie nuovamente come protagonista Michelle Pfeiffer che interpreta con estrema finezza il ruolo di Léa. Dietro il fasto dei costumi e della sceneggiatura si sente vibrare una tematica più profonda: il senso della vita che scorre e il duro addio alla giovinezza. Nonostante ciò il film non riesce a convincere pienamente. Troppo accademico, sofisticato e di maniera, Cheri ci lascia con una leggera sensazione di déjà vu. Formalmente all’opposto si situa Rage di Sally Potter. Costruito come un puzzle multicolore Rage è un esercizio di stile, un esperimento cinematografico attraversato da momenti di genio. Il film consiste in una serie di interviste fittizie, filmate frontalmente su uno sfondo monocolore. Una carrellata di attori famosi (Steve Buscemi, Dianne West, Judi Dench, Jude Law, John Leguizamo) e meno noti sfila davanti ai nostri occhi tracciando, attraverso dei brevi monologhi, un affresco feroce del mondo della moda. Il film è esteticamente molto interessante, ma manca di una vera coesione di fondo, inoltre il dispositivo di cui si serve finisce dopo un po’ per stancarci. My one and only di Richard Loncraine è una commedia brillante, con un ritmo sostenuto, un’ambientazione sontuosa e una protagonista raggiante: Renée Zellweger. Durante i primi venti minuti il pubblico non ha smesso di ridere con le battute a raffica che si scambiano i vari personaggi. Poi diventa lentamente meno gioioso e si conclude in un modo che ci invita alla riflessione. My one and only è un road movie tenero ed un po’ folle che ci trasporta negli Stati Uniti degli anni Cinquanta sulle tracce di Ann Deveraux e dei suoi figli in viaggio su una decappottabile alla ricerca di una felicità che sembra sempre essere a portata di mano. I colori splendidi, i costumi ricercati, la musica swing e le ottime interpretazioni fanno di My one and only un autentico spettacolo. Non penso che questo film possa aspirare ad un Orso, soprattutto a causa del suo soggetto troppo “leggero”; il pubblico comunque l’ha accolto con un grande applauso.
Storm, del regista tedesco Hans Christian Schmid, ha il pregio di abbordare un soggetto politico scottante. Il film sonda i retroscena del processo del tribunale penale internazionale dell’Aia contro un dirigente dell’esercito serbo accusato di crimini contro l’umanità. Da un punto di vista narrativo la trama è molto ben costruita, con un ritmo fluido ed un intreccio ben concepito, nonostante ciò nell’insieme rimane un’opera piuttosto piatta e convenzionale. Il film ci mostra gli intrighi nei grandi apparati burocratici dell’Unione Europea offrendoci una visione amara degli interessi e delle macchinazioni del potere ma non sa lasciare spazio alle esperienze traumatiche dei testimoni d’accusa. Rimanendo “politicamente corretto” Storm si limita a presentarci la figura coraggiosa di una donna avvocato pronta a rischiare il tutto e per tutto perché giustizia sia fatta. Il film è piaciuto enormemente al pubblico ed avrà sicuramente un grande successo in sala perché ci propone, in fin dei conti, un happy end. Chi però ha visto dei lavori fatti da registi autoctoni, cito ad esempio Snow della bosniaca Aida Begic, sa che Storm rimane alla superficie delle cose. Il secondo film tedesco in competizione, Alle anderen, della giovane regista Maren Ade ci narra la storia di due coppie ed è costruito sul modello letterario delle Affinità elettive di Goethe. Gli spettatori tedeschi sono sembrati entusias
ti, in quanto agli altri…
About Elly dell’iraniano Asghar Farhadi ci fornisce un’immagine insolita di questo paese ritraendo un gruppo di giovani di classe media, moderni e disinvolti durante un breve week-end al mare. L’escursione, iniziata sotto i migliori auspici, si trasforma alla fine in un dramma. About Elly è un film sulla menzogna, sulla mistificazione, sulla dinamica di gruppo e i giochi di potere. Il regista dice di avere voluto fare un film politico suggerendoci così una lettura in chiave metaforica. Nonostante i suoi pregi, About Elly soffre di alcuni tempi eccessivamente lunghi e di una sceneggiatura leggermente artificiosa. È comunque fra i favoriti della critica.
Fra gli ultimi film presentati in questi giorni contano Katalin Varga e La teta asustada. Katalin Varga, opera prima del giovane cineasta inglese Peter Strickland, è un dramma cupo ed oscuro girato nei Carpazi. Katalin, vive con suo marito e suo figlio, un ragazzino frutto di uno stupro di cui la donna è stata vittima poco prima di sposarsi. Un giorno questo segreto trapela. Katalin, ripudiata dal marito, parte alla ricerca degli uomini che l’avevano violentata per vendicarsi. La vicenda si svolge in un ambiente rurale rimasto fuori dal tempo dove la bellezza della natura si mischia alla violenza degli uomini e ad un inesorabile codice d’onore. Il film non è privo di una sua forza, ma sembra ricalcare troppo da vicino i codici estetici del cinema dei paesi dell’est e manca per questo di autenticità. La teta asustada è il secondo lungometraggio della peruviana Claudia Llosa che si era già fatta notare con Madeinusa. La teta asustada ci trascina in un mondo crudele e poetico dove vita e morte, malattia e bellezza, speranza e paura si danno la mano; film duro e liberatorio allo stesso tempo, autentico e profondamente sentito merita sicuramente una ricompensa. La teta asustada (letteralmente: il seno spaventato) è il nome di una malattia trasmessa in Perù con il latte materno da quelle donne che hanno subito delle violenze durante la guerra civile. Chi soffre di questa malattia ha costantemente paura; è il caso della giovane Fausta, protagonista del film. La ragazza deve guadagnare dei soldi per poter dare una sepoltura conveniente a sua madre e va a lavorare come donna delle pulizie in una casa; questo sarà l’inizio di un cammino verso la libertà interiore.
Il film è uno studio quasi antropologico della comunità quechua in bilico fra la rivendicazione della sua identità e la necessità di integrarsi nella vita “occidentalizzata” dei centri urbani. Magaly Solier, l’affascinante interprete di Fausta, è anche l’autrice delle bellissime canzoni quechua che sentiamo nel film. La teta asustada ci regala dei veri momenti d’emozione.
The Messenger di Oren Overmann che non sono riuscita a vedere, sembra essere il film più controverso di tutta la selezione. I commenti sono senza mezze misure: c’è chi parla di un capolavoro e chi lo ritiene invece un film retorico, manicheo, scontato ed insopportabile nella sua apologia dei “poveri” soldati americani, morti in guerre lontane, o, ancora peggio – ed è il soggetto del film – costretti ad annunciare alle famiglie la morte dei loro cari in battaglia. Per finire i peggiori che preferisco non commentare: Mammoth di Luckas Moodysson e Happy tears di Michell Lichtenstein.
Oggi alle 19.30 inizierà la cerimonia di premiazione, i vincitori, saranno, come sempre, una sorpresa; ci auguriamo che non sia deludente.