di Maria Giovanna Vagenas/
Un paese senza documentari è come una famiglia senza album di fotografie!
Patricio Guzmán
Questa frase famosa rappresenta perfettamente l’essenza del pensiero del documentarista cileno Patricio Guzmán. In America Latina è considerato un mito vivente, un maestro ammirato e rispettato eppure, nonostante la sua indiscutibile fama mondiale, per un certo establishment politico è ancora un regista ‘scomodo’ .
Il suo nome è indelebilmente legato alla trilogia: La Battaglia del Cile (1974-1979), un’opera epocale. Più che un mero documentario, un vero e proprio documento storico in cui Guzmán ha filmato in tempo reale la lotta, le rivendicazioni sociali e l’ultimo anno del governo di Salvador Allende fino a quel tragico 11 di settembre del 1973 in cui la giunta militare di Augusto Pinochet ha preso il potere instaurando la sua atroce dittatura.
Il modo avventuroso in cui Guzmán riuscì a salvare questo preziosissimo materiale e a portarlo fuori del paese e la maniera in cui lui stesso riuscì a fuggire e a salvarsi esule prima in Europa e poi a Cuba, fornirebbe materiale sufficiente per più film di finzione. Fra le altre cose Chris Marker, che aveva contribuito al progetto de La Battaglia del Cile fornendo a Guzmán la pellicola necessaria per le riprese, lo aiutò attraverso i suoi contatti cubani a montare il materiale all’ICAIC (Istituto Cubano de Arte y Industria Cinematografico).
Dissidente politico da allora in poi Patricio Guzmán non ha mai smesso di lavorare e di riflettere sulla realtà del suo paese dandoci, a più riprese, delle grandi lezioni di umanità e d’impegno civile. Indelebili nella memoria di chi le hanno viste, resteranno per sempre le sequenze di La memoria ostinata (1997) – un film sopra l’amnesia politica cilena- in cui interroga le vittime del regime di Pinochet e riesce a farsi raccontare i particolari delle torture da loro subite.
L’analisi e lo studio della storia passata e presente del suo paese costituisce per Patricio Guzmán un compito sempre attuale. Con il passare degli anni il suo stile è diventato sempre più raffinato e inconfondibilmente personale; i suoi documentari più recenti, soprattutto i due ultimi, Nostalgia della luce (2010) e La memoria dell’acqua (El botón de nácar, 2015) – presentato in concorso alla Berlinale – possono essere descritti come dei poemi sinfonici visuali. Tutta l’esperienza di una vita, la cultura, l’impegno e un grandissimo savoir faire artistico vi confluiscono con una levità assolutamente fuori dal comune.
In Nostalgia della luce il documentarista si era recato nel deserto all’estremo nord del Cile per tuffarsi nel passato -remoto e recente- del suo paese attraverso le osservazioni di un’equipe di astronomi ubicati nella zona e di un gruppo di donne che, indomite, continuano a scavare nella sabbia sperando di trovare i resti dei loro cari “scomparsi” durante la dittatura militare.
Ne La memoria dell’acqua – rivisto recentemente ad Atene in un cinema pieno zeppo di gente- il regista si spinge invece all’estremo sud del Cile fra le acque gelide che circondano la Patagonia; una regione selvaggia e maestosa, culla di antiche civiltà ormai quasi completamente scomparse. Il film è un fluido che scorre possente, appunto come l’acqua. Patricio Guzmán crea una corrente inarrestabile d’immagini, di pensieri, di volti, d’informazioni e di emozioni che si alternano e si avvicendano senza soluzione di continuità; il loro legame è quello di un stream of consciusness.
Brandelli cosmici dispersi e a prima vista lontanissimi – le galassie ed un bottone di madreperla (che dà il titolo nella versione originale del film) rinvenuto nel fondo dell’oceano – trovano nel film di Guzmàn un nesso stringente; e forse è questa la magia, l’alchimia inspiegabile di quest’opera iperbolica, irruente e fluente che, pur essendo potenzialmente centrifuga, tiene la rotta e ci trascina nelle cataratte del suo discorso inarrestabile.
Guzmán costruisce con la sapienza di un grande maestro le sinapsi necessarie a connettere questa enorme quantità di materiali a prima vista incommensurabilmente distanti nello spazio e nel tempo. Ogni piccolo, singolo “atomo” di questo film – per riprendere un termine caro al regista – è intimamente legato a tutto il resto e fa parte di un unico sistema dotato di senso.
L’acqua è l’elemento primigenio che forma la pellicola: l’acqua presente in galassie lontane, l’acqua dell’oceano che circonda i lembi frastagliati della Patagonia, l’acqua che cade dal cielo – il regista ricorda che da bambino il rumore della pioggia sul tetto di zinco della sua casa di campagna lo tranquillizzava- l’acqua come via di trasporto dove le popolazioni indigene nomadi avevano saputo navigare, sulle loro piroghe, con la sola forza delle braccia, percorrendo distanze enormi, durante secoli e secoli, infine l’acqua del mare come enorme recipiente, ventre profondo, pronto ad accogliere i corpi umani senza vita scagliati dall’alto durante la dittatura dai, cosiddetti, voli della morte.
La voce off di Patricio Guzmán accompagna le immagini del film in un dialogo che non spiega ma costruisce un contrappunto, una chiosa, una sorta di basso continuo, un discorso indiretto libero dove considerazioni inattuali, informazioni fattuali, pensieri, ricordi e rivendicazioni si susseguono creando un vasto tessuto di associazioni.
“Le leggi del pensiero sono come le leggi dell’acqua”, ci suggerisce a un certo punto e noi spettatori siamo pronti a seguire il fluire di questo racconto che, cammin facendo, si arricchisce di altre voci e di altri volti.
Sono i volti e le voci degli ultimi superstiti delle etnie dei Kawéskar e dei Sélknam che popolavano ancora nell’’800 la Patagonia. Erano dei popoli fieri, indipendenti che sapevano vivere in armonia con la natura maestosa e terribile che li circondava, rispettandone le leggi e i ritmi. Di questi 8000 individui, oggi ne sono sopravvissuti solo una ventina. La storia del Cile è una storia di massacri mai narrati, c’informa la voce di Guzmán; gli indios della Patagonia non furono sterminati dai conquistadores spagnoli ma, molto più tardi, dai cileni stessi e – in parte- dagli interventi dei missionari che, insieme alla parola del Vangelo, avevano introdotto nella regione virus e microbi alieni alle popolazioni locali con un esito letale.
A queste testimonianze si alternano le interviste con degli artisti e degli intellettuali. Il regista si fa costruire da un’amica pittrice, Emma Malig, una cosa “mai vista prima”: una mappa del territorio cileno tutta d’un pezzo. Dai tempi della scuola in poi Guzmàn si ricorda di non avere visto che delle riproduzioni del suo paese in tre pezzi; nord, centro e sud. Costituito da una striscia di terra lunghissima e stretta fra la Cordigliera da una parte e l’Oceano Pacifico dall’altra, il Cile ha sempre guardato dalla parte della costa, l’oceano gli è restato alieno, commenta.
Percorrendo le coste frastagliate della Patagonia, Guzmàn cerca di riappropriarsi di brandelli di storia e di ricostruire la memoria e l’identità del suo paese.
La chiave di volta del film è costituita da un oggetto a prima vista banale: un bottone di madreperla. In questo contesto invece diventa un atomo di materia irriducibile capace di attraversare secoli di storia e di sfidare gli elementi della natura per diventare un testimone incontestabile dei misfatti umani.
I soprusi del passato coloniale si sovrappongono a quelli della dittatura militare, la storia di Jemmy Button, un indio comprato dagli Inglesi nella prima metà dell’800 in cambio di un bottone di madreperla, ci rimanda -con un ardito corto circuito storico- alle vittime della dittatura di Pinochet che venivano gettate nell’oceano, legate a dei pezzi di rotaie per garantirne la scomparsa nei fondali marini. Quarant’anni dopo, attaccato ancora ai resti arrugginiti di questa ferraglia ripescata in mare, un bottone di madreperla, appartenuto ai vestiti della vittima, riemerge intatto ridando un volto umano a queste vestigia.
“L’impunità è un doppio assassinio” , dice la voce di Guzmàn a più riprese. Questo film serve a ricordarcelo.
Bellissima riflessione. Il film alterna una visione ciclica a una più genealogica, direi, la prima per tenere insieme poeticamente, e a tratti più suggestivamente, con i rischi del caso, temi, immagini e cosmologie, e forse anche per veicolare una visione ecologista e vicina alla natura vista come organismo fatto di tante parti che dialogano e cooperano, la seconda per mostrare la differenza di popoli e di lotte che la storia ha estinto e annegato, due verbi, questi, che riportano al concetto opposto a quello della memoria, ossia riportano alla rimozione, tema costante in tutti i film di Pablo Larrain. Immagino che una lingua, quel!a di una delle popolazioni indigene mostrate, che non conosce parole come Dio e polizia possa risultare effettivamente scandalosa…