Perchè sì

Perchè no

di Arianna Biagi

Richard Yates – autore del romanzo che ha ispirato il film di Sam Mendes – scrisse: “Non vado quasi mai al cinema perché i film sono una cosa da bambini”. Una provocazione per sottolineare il limite dei tempi cinematografici a raccontare la complessità. Due ore di proiezione non sono sufficienti a restituire l’oscuro percorso interiore dell’Uomo, la stratificazione disordinata del vivere o la densità di un testo narrativo, ma possono certo raccontare, schizzare sulla tela mentale dello spettatore, un’emozione.  Sam Mendes ci riesce, dopo American Beauty realizza un’altra pellicola che svela il dopo Happy End Americano, portando sul grande schermo non solo una notevole opera letteraria – incentrata sulla destrutturazione della coppia borghese anni ’50, sul fallimento del sogno americano che vedeva l’equazione benessere-famiglia=realizzazione personale – ma soprattutto la storia senza tempo di un uomo e una donna, incapaci di dar vita ai propri sogni.

Revolutionary Road non è necessariamente un oltre lontano dalla quotidianità, un domani sempre sfuggente, quanto piuttosto la consapevolezza che la vera rivoluzione è conoscere se stessi e costruire su queste fondamenta una vita a propria immagine e somiglianza. Proprio ciò che non riescono a fare i coniugi Wheeler, straordinariamente interpretati da Leonardo Di Caprio (Frank) e Kate Winslet (April) che sono infatti la personificazione della velleità.  Lei sogna di fare l’attrice, lui non sa ancora cosa farà da grande ma certo non la vita banale di tutti. Entrambi convinti di essere superiori ai vicini mediocri sforna-figli, alla società che abbrutisce l’individuo nel lavoro e nella routine, non si accorgono di scivolare in quella stessa direzione, giorno dopo giorno. Incapaci, singolarmente e insieme, di smettere di immaginare per iniziare a sporcarsi le mani con la realtà, decidono di partire per l’Europa con i due figli piccoli, per spezzare una quotidianità borghese che li ha resi simili agli altri. Lei ha lasciato i palcoscenici amatoriali, lui, che aveva sempre criticato il padre, si trova non solo a farne il lavoro ma per la stessa ditta. L’ennesima fantasia del viaggio li solleva da terra per alcuni mesi, li fa sentire superiori al mondo convenzionale mentre loro stessi creano nuove catene per restare: April rimane incinta e Frank ottiene una promozione sul lavoro. Ora sono entrambi di fronte a quella umanità banale che abita pure loro e incapaci di confrontarsi con essa litigano aspramente, si gettano Frank nelle braccia di una collega graziosa ma stupida April in quelle del vicino di casa, in un’escalation verso l’inferno lenta e inquietante che toglie il respiro allo spettatore.

 Sam Mendes riesce a rendere il clima claustrofobico del romanzo di Yates: i colori giallo-verdi, i tempi narrativi, le musiche simili a un leit-motiv avvolgente che prelude alla tragedia sostituiscono la parola e fanno respirare allo spettatore il dramma ancor prima che si verifichi. Tutto questo sarebbe stato impossibile senza le incredibili maschere della Winslet e di Di Caprio ma anche di Kathy Bates nel ruolo della vicina di casa immobiliarista e nel di lei figlio matto che vive in manicomio impersonato da Michael Shannon il quale, pur facendo due brevi scene, incide la pellicola con la violenza della pazzia, con la verità lacerante che mostra ai Wheeler il cielo di carta delle loro vite.

Frank e April sono vittime storiche dei ruoli che negli anni ’50 relegavano la donna fra le mura domestiche e l’uomo a “portatore” di denaro ma sono soprattutto vittime di se stessi, del tormento di chi non si cerca in quanto Uomo ma si immagina soltanto. Vittime dell’illusione umana universale, pronta a vestire la rivoluzione di mito, invece di scoprire l’originalità del proprio sé. Mendes con e attraverso Yates ci regala la possibilità di sentire tutto questo, con l’eleganza di una regia degna dell’opera letteraria che rappresenta e di attori forse troppo bravi per meritare una candidatura all’Oscar.

di Alessia Brandoni

Il fallimento del sogno americano annidato nelle villette a due piani dei sobborghi e nelle velleità della piccola borghesia degli anni cinquanta, tratteggiato con magnifica e disperata precisione da Richard Yates nel suo Revolutionary Road (ed. Minimum Fax), perde ferocia, poesia e verità nella versione patinata che Sam Mendes (American Beauty: ovvero De Consolatione) confeziona addosso ai due attori protagonisti (Kate Winslet e Leonardo di Caprio).

April e Frank sono una giovane coppia che si crede superiore alla media conservatrice (l’eco degli omologanti processi maccartisti si sente ancora…) e che si atteggia al non conformismo (locuzione, questa, scelta non a caso da Garzanti quale titolo della prima edizione italiana). Lui è un uomo debole e senza qualità, che, nonostante la pavidità di fondo, riesce a “interpretare” abilmente qualsiasi idea o pensiero altrui e a farne un’esibizione utile a conquistare gli altri, tranne, e non potrebbe essere altrimenti, la stima dell’autoritario padre, peraltro defunto. Lei è invece una novella Madame Bovary, con un passato di abbandono e circoli di esclusive solitudini, che proietta le sue frustranti illusioni artistiche sul marito, ma, diversamente da lui, soffre davvero e ha la forza di vivere un destino. Sognano la vitalità artistica di Parigi, la fuga verso il sogno europeo (la negazione hippie dell’american dream avverrà solo nel decennio successivo), ma rimarranno paralizzati nel pantano comodo della provincia americana, almeno fino a che la tragedia non irromperà con la sua verità senza rimedio nella mediocrità della finzione familiare. Il libro di Yates, attraverso il realismo epifanico e l’analisi psicologica sempre sottotraccia dei personaggi, si pone come uno dei libri più belli e importanti del novecento americano, molto lontano dallo scialbo minimalismo pseudometafisico di tanti suoi successori. L’infelicità dei protagonisti delle sue storie si inserisce sempre in dei contesti precisi e in dei percorsi esistenziali decifrabili, i quali, in una sorta di paradossale chirurgia sentimentale, squarciano in profondità la superficie estetica del fallimento. Il film di Mendes, diversamente, scegliendo di rappresentare solo lo spettacolo offerto dalle scene madri (in tal modo fiaccando il radicamento della storia dai vissuti e dalla Storia) e rinunciando totalmente a proiettare fuori dalla caverna la psicologia che muove le azioni, rimane sulla superficie del mare facendo tanto rumore per nulla. Perché April e Frank sono infelici? Non si capisce. Ma, a identificarsi nelle loro urla e nei loro avvitamenti, si sta tanto male. Finita la catarsi manipolatoria della visione si torna fuori e non ci si pensa più, rimanendo ben poco ad agire sotto la superficie oculare. C’è quantomeno il merito di aver scelto una storia senza l’happy end, è vero, di aver mostrato la forza della disperazione di una donna americana imprigionata nel conformismo dei persecutori anni ’50, anche, ma se a questo non si associa una pratica di riflessione -anzitutto immaginaria– più profonda, ecco che si rimane colti da uno sconcerto giusto molto ineffabile, molto breve.

Il protagonista alla fine del film paga le sue debolezze ma si trasforma in padre devoto. Nel libro questo riscatto morale non c’è, e il debole furbastro diventa un noioso vincente nella società del pensiero debole.  

La frase: “In fondo, tutti riconoscono la verità, anche quelli che la nascondono. Col tempo imparano soltanto a mentire meglio”, dice April a Frank.

4 Replies to “Revolutionary Road”

  1. Sono totalmente d’accordo con questa recensione, che coglie proprio le causa dell’infelicità di questa coppia: non si conoscono, sono vittime dei loro umori e stati d’animo, proiettano fuori i problemi che hanno dentro così come le soluzioni a questi problemi, così finiscono per odiare se stessi. E infatti lei non riesce a immaginare altra soluzione che quella drammatica di uccidere se stessa insieme al suo bambino.

  2. molto spesso si entra in sala dopo aver letto il libro dal quale è tratto il film,con un senso di timore.
    la paura è quella di assistere nelle 2 ore successive ad un lento sminuire di tutte le belle immagini che la propria mente ha prodotto nella lettura…purtoppo la maggior parte delle volte è così…
    una delle poche eccezioni coincide proprio con questo film che riesce a raccontare magistralmente l’intera storia nei tempi cinematografici riuscendo anche a sottolineare nei momenti chiave ,tutta la drammaticità e l’assurdo di ciò che accade.
    un timore simile a quello inizialmente descritto lo si avverte iniziando a leggere la recenzione di un film bello e complesso come questo . . . complimenti ad ARIANNA!!

  3. sono anche io d’accordo su tutto, ma la domanda è: da dove deriva il male oscuro di frank e soprattutto di april? credo che il regista avrebbe dovuto scavare di più, avrebbe dovuto non solo raccontarci l’oscuro ma farci sbattere la testa contro e dentro l’oscuro stesso. per il resto grandi attori e anche grande storia, molto ben raccontata..ma appunto…raccontata..

  4. sono d’accordo con Enzo, perchè questa infelicità? l’analisi psicologica dei personaggi presente nel libro, penso soprattutto alla storia familiare di April: bambina non amata dai genitori, figure completamente assenti, qui viene completamente tagliata, a vantaggio di dilungamenti inutili, anche rispetto al libro, ma accattivanti come il ballo tra la Winslet e Shep nel locale. E poi la fine con Di Caprio padre devoto nel libro non c‘è. Frank è un furbastro e alla fine, tra psicanalisti guru e carriera, sopravvive, perchè Frank non ha il “fegato” per la disperazione. E’ un mediocre che gioca a fare il grande, è un attore, un uomo senza qualità, è uno con il pensiero debole, in senso postmoderno. Secondo me il regista ha sbagliato rappresentazione cercando di replicare fedelemente solo alcune scene invece che cercando di interpretare lo spirito, il flusso, i monologhi interiori che fanno del libro di Yates uno dei libri più belli del novecento americano. Trovo che questo sia un film superficiale e patinato, insomma.

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