di Fabrizio Croce/ “Se siamo fortunati, non importa se scrittori o lettori, finiremo l’ultimo paio di righe di un racconto e ce ne resteremo seduti un momento o due in silenzio. Idealmente, ci metteremo a riflettere su quello che abbiamo appena scritto o letto; magari il nostro cuore e la nostra mente avranno fatto un piccolo passo in avanti rispetto a dove erano prima. La temperatura del corpo sarà salita, o scesa, di un grado. Poi, dopo aver ripreso a respirare regolarmente, ci ricomporremo, non importa se scrittori o lettori, ci alzeremo e, “creature di sangue caldo e nervi”, come dice un personaggio di Cechov, passeremo alla nostra prossima occupazione: la vita. Sempre la vita” (Raymond Carver)
Chissà cosa scriverebbe Tracy, la ragazzina agli albori del college con aspirazioni da scrittrice e atteggiamento mentale, fisico, estetico da adolescente post – post- post grunge(disincanto e inquietudine), di me che sto scrivendo una recensione sul film di cui è la protagonista … può sembrare un gioco di scatole cinesi, eppure Mistress America, il nuovo capitolo della coppia Noah Baumbach / Greta Gerwin sulla gioventù newyorkese in cerca d’autore o, quanto meno, d’ispirazione dopo il caldo e senza dubbio ispirato Frances Ha, appartiene a quella categoria di film, esattamente come il suo predecessore e, aggiungerei in ordine sparso, alcuni film di Woody Allen a cavallo tra i 70 e gli 80 piuttosto che i racconti brevi di Raymond Carver, in cui ti viene voglia di saperne di più dei personaggi, non tanto per un processo rassicurante di identificazione e catarsi- non c’è mai la sensazione di un inizio e una fine in questi short cuts, sono come frammenti o istantanee di flussi di vita- quanto per la freschezza e per l’energia con cui le figure si staccano dalla bidimensionalità dello schermo o della carta e occupano uno spazio più intimo nella relazione con lo spettatore.
Ammetto che mi è venuta voglia di conoscere Tracy, divisa tra la diffidenza e quel senso di stare sempre altrove che probabilmente mi ricorda il me stesso dei 18 anni, a cominciare dalla difficoltà di procrastinare il tempo per arrivare alla distanza tra l’immagine che vorremmo che gli altri avessero di noi in contrapposizione talvolta feroce con quella che abbiamo di noi stessi. E Tracy l’immagine che vorrebbe dare di se stessa , l’eroina in cui vorrebbe incarnarsi o, trattandosi di una figlia di quella generazione che i suoi eroi li ha uccisi e sepolti tutti, l’anti eroina attraverso cui dare una forma e un’espressione alla sua confusione la trova quasi subito nella futura sorellastra trentenne, una Brooke bionda, esuberante, disinibita nel linguaggio e nel suo viversi fino in fondo lo smarrimento e la ricerca un po’ a vuoto di quel “luogo chiamato casa …. dove non c’è nessuno a darti la colpa”, come cantava P J Harvey, una delle possibili madrine spirituali di un mondo così fragile e vitale.
E Brooke è Frances Ha ovvero Greta Gerwin che, come scrivevo nel precedente colpo di fulmine nei confronti di questa stralunata attrice musa al tempo stesso del regista Baumbach e di se stessa (scrive i film che interpreta), è una presenza spiazzante e diversa all’interno di un sistema, quello hollywoodiano, che ha completamente inglobato e normalizzato il cosidetto cinema indipendente (basta confrontare il programma del Sundance Film Festival e le candidature agli Oscar, almeno negli ultimi dieci anni) e in cui la fisicità della Gerwin, la sua altezza eccessiva, la goffaggine nel portamento, il viso leggermente irregolare e mobilissimo in smorfie ed espressioni buffe, l’aria fanciullesca che rende non oscene persino battute del tipo “Non vedo l’ora di succhiare il tuo cazzo …”, emerge solitaria come una figura a cui approdare dopo aver viaggiato attraverso tutte le icone dell’ipertrofico immaginario del web, la testimonianza in carne e ossa che, per esistere cinematograficamente, non è necessario aderire ad uno standard predefinito.
Brooke, come Frances e come Greta, possiede e mantiene la forza della spontaneità e proprio nel momento in cui sta perdendo tutto- l’opportunità di aprire un accogliente e famigliare ristorante, il suo personale “luogo chiamato casa”- vince, esponendosi nella sua frammentazione e insicurezza, nel bisogno di essere amata e, cosa non secondaria, capita in quel dare l’idea di poter fare tutto e non riuscire a fare niente, come la descrive Tracy nel racconto che scrive in presa diretta e in voce off su di lei, in un misto di adorazione, idolatria e spirito iconoclasta, per cui il piccolo culto che le crea attorno nell’esperienza reale e condivisa lo distrugge con un precoce tono crepuscolare nel parallelo processo di scrittura, ammettendo a dire il vero un innamoramento che la spinge ad abbracciare la visione naif di una Brooke, di un mondo caldo e accogliente disposto ad aiutarti a trovare il tuo posto chiamato casa.
La regia di Baumbanch, decisamente più schietta, dinamica e immediata rispetto a quella “autoriale” e citazionista di Frances Ha, con le sue sospensioni, i vuoti esistenziali e gli omaggi cinefili dell’onda lunga della Nouvelle Vague , dal Godard dei ’60 al Leo Carax degli ’80, si affida e confida molto nel carisma delle sua attrici, la Gerwin e l’inedita Lola Kirke, che per attitudine potrebbe diventare una nuova Lili Taylor o una versione yankee della Lola Creton amata da Olivier Assayas e Mia Hansen Love , visto che la proprietà transitiva ha voluto che proprio Greta Gerwin apparisse nel film più recente di quest’ultima, Eden , in una Parigi vista con uno sguardo molto simile alla New York di Baumabach\Gerwin, quantomeno attraverso lo stesso tempo circolare di desiderio, ricerca e perdita, magari con una tendenza più ruffiana e americana ad evitare l’introspezione e la riflessione di matrice europea.
Ma l’ammiccamento e il gusto della battuta e del dialogo serrato, che esplode nella mezz’ora finale con l’ultimo, audace tentativo di Brooke di convincere l’ex fidanzato ricco e frustrato e l’ex migliore amica che gliel’ha soffiato, insieme a una remunerativa idea per T-Shirts, a investire soldi nel progetto del “ristorante/casa”, l’impostazione che da dinamica e sincopata si fa più statica, a un certo punto quasi da piece teatrale, contraddicono e smascherano tutto il girare a vuoto a cui abbiamo assistito nella prima parte, inclusa l’ambivalenza e il doppio filo con cui Tracy fomenta l’ego di Brooke, per poi destrutturalo e criticarlo in un racconto che viene letto “in scena”, davanti a tutti gli altri personaggi, con effetto liberatorio, ma non catartico, di segreti e bugie, meschinità e opportunismi, tanto più che lo scritto in questione occorre a Tracy come viatico per entrare in un prestigioso club letterario del college. In relazione a Brooke, persa assolutamente e genuinamente dentro la sua vita tanto da far coincidere e convivere le contraddizioni e da tenersi in piedi su un miracoloso, funambolico equilibrio di patetico ed esaltante, Tracy sta dentro e fuori , è a un tempo sia l’artefice, l’ispiratrice delle azioni che Brooke compie nel film, è lei che la spinge a cercare l’amica e il fidanzato traditori per chiedere loro denaro per il ristorante, ed è anche la scrittrice dallo stile artificioso “come tutti quelli della tua generazione” come l’appella uno dei personaggi, che fa di Brooke la sua storia, la sua Mistress America. Ne diventa così la coscienza critica, la cronista sarcastica, l’innamorata senza speranza e dunque con un certo tono tra lo sprezzante e l’idealista di un modello femminile attraente nell’innocenza e respingente nell’incoerenza, nella mancanza di logica nei gesti e nei comportamenti, la grande colpa che un Super io potenziato dalla Società del risultato e della paura del fallimento ha impiantato in ogni luogo, incluso quello della parola come racconto dell’altro. Non a caso Tracy definisce il club letterario in cui il racconto incriminato dovrebbe farla entrare come gestito da “coglioni auto-eletti”.
Baumbach però è totalmente innamorato dell’amore e dell’affetto che si è stabilito tra queste due donne “quasi coetanee” come percepisce Brooke i dodici anni che la separano da Tracy per far cadere il loro incontro in una misera querele meta linguistica: così, in maniera non risolutiva ma sussurrata e dimessa, riserva loro l’opportunità di un altro incontro che non è l’inizio e la fine di niente, bensì il tempo di un contatto intimo e minimalista, in un giorno di celebrazione come la Festa del Ringraziamento, che permette a Tracy di cambiare il senso e la direzione del racconto su Brooke, eletta dalla voce off reginetta del ballo di tutti coloro che hanno capito che il processo per diventare se stessi o per trovare un luogo chiamato casa a volte è più importante che diventarlo ed arrivarci.
Scusa, omonimo: non è che scriveresti due-righe-due in più, per farci capire di che cosa si tratta?
Così, giusto per scoprire se il desiderio di suggere membri della protagonista ed un non meglio identificato ristorante-casa hanno qualcosa in comune l’uno con l’altro e cosa c’entri una t_shirt.
Bastano due righe di plot, non di più. Tanto per dirci se vale la pena andarlo a vedere o no. O cosa ci possiamo mai trovare dentro… E anche capire se ti è piaciuto o meno, non sarebbe poi così male.
Quando dici “fac(ci) capire” , ti riferisci a te, al tuo ego e a chi altro?
Secondo me, il pezzo di fabrizio è esaustivo per quello che si proponeva di dire sul film.
Non c’è un modo univoco e canonico di commentare un film, ed è questo penso sia l’indirizzo che la direzione di Schermaglie voglia comunicare.
Si può parlare della trama o anche non farlo affatto, perchè l’importante è offrire degli spunti, stimolare riflessioni anche soltanto su alcuni dettagli del film che per altri possono apparire insignificanti.
Conosco molte persone, me compresa, che leggono una critica a un film soltanto dopo averlo visto e che, se comunque la leggessero prima, non sopporterebbero alcun riferimento che possa in qualche modo svelargli la trama.
mi rendo conto che è questione di gusti, e dunque anche di stile, ma mi colpisce come un appassionato di cinema dopo aver letto questa recensione appassionata possa, e magari pure di getto, scrivere un commento come quello scritto per primo, a mio parere un commento restrittivo, quanto a vedute, e castrante, quanto a immaginazione.
in ogni caso, prendo spunto dall’ironia che forse ho sentito un po’ troppo acida, per aprire una riflessione parallela, ossia quella sugli ipotetici limiti e sull’ipotetico contenuto “necessario” rispetto a una ipotetica “Recensione” ideale, uso la maiuscola di proposito e parimenti anche l’idealità, categoria oramai archiviata dalla cultura, e senza tanti rimpianti (rimorsi forse sì?). a meno di non dirsi conservatori. è un mio punto di vista, ovviamente.
a me il pezzo di Fabrizio Croce è piaciuto molto, probabilmente molto più del film, e non ci trovo niente di male nel dire questo, che cioè preferisco un racconto (ispirato) scritto da qualcuno dopo aver visto il film al film. penso che un pezzo, “ai nostri tempi”, appunto post-post e ancora post, possa essere anche una “creazione” autonoma, un racconto che spazia e che spesso coglie con l’intuizione poetica, quando come qui prende una compiuta forma poetica, quello che alla sola critica e al pensiero razionale (in crisi in tutto l’occidente, almeno!) a volte sfugge. che poi il pezzo, citando uno dei più noti maestri del racconto contemporaneo, Carver, in apertura e poi dichiarando la posizione riflessa dell’autore rispetto alla protagonista, mi sembra sia molto onesto e non tenti di sviare o manipolare nessuno.
Se devo spiegarvi tutto il sottotesto delle tre frasette tre di critica all’articolo, lasciatemi dire:”Huston, c’è un problema!”.
Ma forse sarebbe meglio parodiarlo in: “Huston, hai un problema!”…
Scrivere ha principalmente a che fare con l’etica.
C’è un problema di rispetto verso l’opera (che si critica, ma a cui va riconosciuto con onestà il dovuto), verso il lettore (che auspicabilmente ci criticherà, e a cui va espresso lealmente il nostro pensiero proprio per consentirgli di criticarci a ragion veduta), e verso l’editore, (che dovrebbe averci già criticato, ma che pare abbia problemi di identità e di crescita anche lui).
Tutto ciò che ha profondità, che ha contenuto ed idee, ambisce naturalmente alla chiarezza. Ha solo da guadagnare, nel lasciarsi comprendere, e nel farsi criticare a fondo: anela al proprio miglioramento e alla condivisione più ampia. E a quello che ne consegue, come accennato nella citazione — forse mal compresa — di Carver. Che è il vero problema.
Ma, disgraziatamente, vale anche la reciproca.
Quando sei tu a scrivere, Fabrizio Croce, ne va del tuo ego — non del mio. Non credi?
E se non sei in grado di sopportare le critiche (finanche corrosive), smetti semplicemente di sottoporti ad esse.
Il problema, mio caro, non è la critica intesa come contenuto che tu da lettore sei liberissimo di esprimere ( e io, ovviamente liberissimo di rispondere) ma la forma con cui le esprimi che io trovo sterile, provocatoria, non dialettica, presuntuosa, pretestuosa e mi fermo qui…..tu parli di rispetto dell’opera e di etica della scrittura ma io ho letto tue recensioni (?) tipo quella su Suite francese, dove utilizzi un testo altro per partire con tue dissertazioni che nulla c’entrano col film (tanto meno con la trama o con l’estetica e l’etica del cinema e in particolare di quel film che dovresti raccontare al pubblico che sempre secondo te andrebbe rispettato) ma dal mio punto di vista con una sorta di partenale, molto moralista, in cui costringi il lettore a seguirti in ragionamenti e dissertazioni che non ti erano richieste . Il problema è che in quella stessa recensione, con una volgarità intellettuale desolante, sputavi sul pulpito su cui ti eri sollevato a dissertare, accusando questo spazio ( che è fatto di persone con cui non ti sei mai degnato di interarige e dialogare anche in maniera critica e non per dirci quanto siamo bravi e belli: ti assicuro che tra di noi ci confrontiamo anche animatamente) di essere un contenitore di dissertazioni vuote, di bla, bla, bla senza senso. Punto di vista leggittimissimo: ma mi chiedo quale gusto sadico ti porta ad esibire la verità di cui sei custode con noi poveri analfabeti della parola e dello spirito….io poi sono meramente e tristemente caduto nella tua provocazione, hai ragione, ma, al contrario di te, non nascondo le mie umanissime debolezze, nemmeno dietro alla scrittura di una recensione e tantomeno di un commento.
Grazie per la tua critica, Fabrizio.
E ti rispondo volentieri, tralasciando le lodi che mi sono — come dire? — meritate tutte.
Nelle due righette critiche che ti hanno fatto infuriare, rimettevo insieme tue frasi: te ne sarai accorto, spero. Quindi tutto quello che dici a me, ti si ritorce contro, perchè ne sei tu l’autore.
E’ chiaro che non hai capito un bel nulla della mia recensione sulla Suite Francese. Ma se ti vai a rileggere i commenti, uno dei miei critici sì che ha capito perfettamente tutto, e ne è rimasto mezzo folgorato. E questo mi ripaga ampiamente. D’altra parte, annunciavo all’inizio di quella recensione che si trattava di un testo molto difficile, scritto con riluttanza. E spingevo quelli che fanno solo tanti bla bla ad abbandonare la lettura. Dovevi farlo subito, e ti risparmiavi mal di pancia.
Il centro di quella critica era il rapporto fra arte e vita, con la trasformazione cruciale che l’arte può indurre nella vita reale, concreta: trasformazione migliorativa che ci farebbe passare da subumani a uomini. Accade nel film per la protagonista femminile, in quella splendida metafora del sentire la musica attraverso le dita che sfiorano il pentagramma. Come vedi la critica era ancorata all’opera, come suggerito bene qui da Sara Marullo. Evidentemente non hai capito, oppure ritieni che non ti riguardi. Dillo tu. Ma come fai allora a criticarmi animatamente su questo tema centrale — e a citare lo stessissimo concetto esposto lapidariamente da Carver qui sopra, all’inizio della tua recensione?
Non ti sembra un tantinello contraddittorio? O citi Carver, a prescindere?
In quanto a “partecipare” positivamente ai vostri dibattiti, le mie critiche e i miei elogi li trovi sparsi a commento di qualche recensione sul web. E tutto sommato anche alla tua. Se ti ho “pizzicato”, vuol dire che il dente duole davvero.
Nessuno mi ha mai invitato a riunioni di redazione, sebbene abbia contribuito per qualche anno al sito. E ora capisco bene perché. Ora, caro Fabrizio, non ci conosciamo e forse ti da un gran fastidio che qualcuno non del tuo “giro” ci possa capire forse più di te, o che ti possa criticare. Ma questa è la vita. Faresti probabilmente meglio a cercare di capire il prossimo e a rispettarlo, forse ti può insegnare qualcosa. I grandi artisti sono sempre dei grandi ladri, perchè spesso catturano le idee e le intuizioni dagli altri e le fanno proprie. Ma va da se che di queste cose non è lecito parlarne con te.
Concordo. Un film discretamente espressivo e complesso. Una recensione molto bella
non so bene perché, ma mi ero perso tutto questo carteggio. Ho visto il film e letto la recensione,
mi sono piaciuti entrambi, di più la recensione. Fabrizio Croce ha un modo molto particolare e affascinante di scrivere e spesso le sue recensioni travalicano, in senso stretto, il rapporto che “dovrebbe sussistere” tra recensore e l’opera per esplorazioni più profonde e personali, che vengono esposte sempre con molta grazia e che comunque non tolgono spazio alla comprensione dell’opera, anzi ne ampliano le prospettive.