Mentre la finzione porta solo la traccia del desiderio del suo autore, il documentario si costruisce anche con il desiderio dell’altro. Da questa tensione nasce il lavoro d Yolande Zaubermann.
Cineasta francese di origine ebrea, Yolande Zauberman ha costruito sul filo degli anni un’opera singolare e appassionante. Il suo ultimo lavoro: M, presentato in concorso al festival di Locarno è stato ricompensato con l’ambito Premio speciale della giuria.
Pur mettendo sempre in primo piano le storie dei suoi personaggi, Yolande Zauberman non è mai un’osservatrice distaccata e distante, ogni volta si mette in gioco anima e corpo, senza rete di sicurezza. Nel sondare il vissuto di chi si trova davanti al suo obiettivo, nell’accogliere le confidenze che le vengono fatte, la regista esplora al tempo stesso anche gli anfratti reconditi della sua propria storia. Nei suoi film il racconto si costruisce attraverso una relazione con l’altro che va nei due sensi; la dimensione profondamente etica e politica del suo cinema si fonda su questo rapporto di reciprocità. La sua cinepresa si muove al più presso dei corpi e dei volti, ritratti molto spesso in primo o in primissimo piano e, più che scrutarli, sembra abbracciarli.
Yolande Zauberman non cerca un’immagine netta e un’inquadratura perfetta a tutti i costi: le riprese sono a volte sfocate e instabili, i volti in primo piano spesso filmati di traverso o tagliati in parte dal margine dell’inquadratura, ma tutto ciò non toglie nulla alla loro intensità e alla loro verità. Filmando i suoi personaggi in modo sinuoso e sensuale la regista rivela tutto il loro dolore ma anche la loro disarmante umanità.
Il suo alleato principale è la notte.Filmati di notte, illuminati da una luce puntuale o solo dal fascio luminoso di una torcia gli eroi dei suoi film sembrano sorgere dal nulla, come delle epifanie.
Come in un immenso confessionale a cielo aperto, la notte con il suo velo protettore diventa il luogo privilegiato per parlare. Nell’oscurità le lingue si sciolgono e raccontano esperienze di vita, pensieri, traumi e oltraggi, dubbi e speranze in un gesto rivelatore e salvifico al contempo perché la parola liberata è l’unico modo per riscattarsi dai torti subiti.
Tutti questi elementi, già presenti nell’opera documentaria di Yolade Zauberman, confluiscono in maniera esemplare in M.
Se in Un juif à la mer (2005), il racconto scaturiva da un tête- à -tête della regista con un unico personaggio, Selim Nassib, e in “Would you like to have sex with an arab” (2012) dalle testimonianze collettive di un’inchiesta sul terreno, in M la storia si costruisce seguendo i passi del protagonista, Menahem Lang, nel corso di un lungo viaggio nella notte di Bnei Barak, un’enclave ultra-ortodossa di Tel Aviv. M é un film che taglia come un coltello, ci sconvolge e ci commuove profondamente.
Il film inizia in media- res. Magnetico, intenso, estroverso Menahem sorge come una visione su una spiaggia deserta cantando dei psalmi. Lo sguardo puntato verso la cinepresa ci racconta la sua storia. Vittima nella sua infanzia di violenze sessuali da parte di vari membri della sua comunità, ritorna a Bnei Barak per reclamare giustizia e costringere i suoi aguzzini a confrontarsi con i propri misfatti, Menahem spera però di potere riannodare anche legami con i suoi genitori, violentemente spezzati quando, ventenne, decise di abbandonare la sua comunità.
La regista accompagnerà Menahem durante tutta quest’avventura; sentiremo la sua presenza, talvolta anche le sue parole, senza mai vederla. «Penetro nel mondo dei miei antenati attraverso una ferita, quella di Menahem » la sentiamo dire in Yiddish, durante la prima sequenza. Anche per Yolande Zauberman, ebrea-polonese d’origine, questo documentario diventa un passaggio, un’occasione insperata per ricollegarsi con le radici del suo passato familiare.
Lingua ormai rara, parlata nei secoli passati dalle comunità ebraiche in Europa, l’hyddish apre un terreno d’intesa immediato fra la regista e il suo protagonista. Con questo talismano Yolande Zauberman si addentra, seguendo i passi di Menahem, in un mondo, quello degli ebrei-ultra ortodossi, che pensava le fosse completamente precluso.
Dopo quindici anni di assenza, Menahem gira di notte per le strade del suo quartiere fra bewilderung e la gioia di essere di nuovo fra i suoi. S’imbatte dapprima in un vecchio amico, un ragazzo della sua stessa età, che dopo essere stato anche lui violentato ripetutamente da bambino ha abbandonato la comunità per cercare di ricostruirsi altrove. Le cose sembrano, a prima vista, non essere cambiate molto: un primo, goffo tentativo di Menahen di mettere uno dei suoi aguzzini di fronte alle sue responsabilità tagliandogli l’elettricità per farlo uscire allo scoperto, fallisce penosamente. Questo è solo l’inizio di un’incredibile scorribanda notturna che porterà a galla una realtà difficile da immaginare.
Come Dante e Virgilio, Menahem e Yolande Zauberman, s’incamminano per i gironi dell’ inferno e nel corso delle loro peregrinazioni notturne vivono una serie d’incontri sconcertanti. Il film – si capisce – é stato girato durante varie notti successive, ma gli eventi si susseguono con una logica interna che ci rimanda da un episodio a quello successivo senza soluzione di continuità. In quest’unica interminabile notte camminando con Menahem al suo lato la regista, cinepresa in mano, si sente come il falutista del flauto magico. “I bambini feriti sorgono dal nulla come per magia e ci seguono” la sentiamo commentare in off.
Menahem e Yolande s’imbattono in una pleiade di uomini che errano anche loro nella notte e che sono pronti a parlare del loro vissuto, a condividere le loro storie e le loro ferite. Tutti questi racconti proliferano intorno ad uno stesso, tragico, punto di partenza perché questi uomini hanno un segreto e una ferita in comune, sono tutti stati abusati sessualmente nella loro infanzia da degli uomini adulti della loro comunità; maestri della scuola talmudica, fratelli, cognati, membri della famiglia, tutti sono segnati a vita dalla violenza subita.
M é un appello ardente a rompere la legge del silenzio a liberare la parola, per sanare le ferite delle vittime permettendo loro di ricostruirsi, per spezzare infine il circolo vizioso che generando vittime, genera potenzialmente anche dei futuri aggressori.Ma è anche una’ appello alla riconciliazione con gli altri e soprattutto con se stessi. Una grande lezione di umanità e di speranza.
Perdonando e riannodando i suoi legami con la sua famiglia e la comunità, M esce vittorioso da questo suo confronto col passato. Il film si chiude in modo glorioso; in un’allegria sfrenata, fra i canti e i balli dei Hassidim in estasi.