Guardando Chaos si risente la tua prossimità, il tuo legame profondo con le altre due protagoniste. Sentiamo in off la tua voce, mentre instauri un dialogo con loro, aiutandole a confidarsi, ad esprimere i loro pensieri, i loro ricordi. Inoltre il modo in cui tratti lo spazio, la luce e il suono esprime in modo organico e perfettamente pertinente il soggetto del film. Potresti parlarcene?
Ogni carattere nel film, ogni donna é molto diversa dalle altre. Per me era molto importante cercare di trovare un linguaggio visuale capace, in un certo qual modo, di unificarle e di creare l’impressione che si trovano a condividere uno stesso spazio nonostante, in realtà, vivano in tre città diverse. Per raggiungere questo risultato ho lavorato molto con l’impostazione della luce e la scelta precisa delle inquadrature. Difronte ad ogni donna mi sono domandata quale sarebbe stata la maniera più giusta e pertinente di inquadrarla. Per tutte queste ragioni, sono stata molto attenta al modo in cui mi sono servita dei vari elementi tecnici ed estetici come, per esempio, la luce.
Una delle mie maggiori preoccupazioni è stata proprio quella di trovare la giusta distanza fra la cinepresa e le protagoniste: volevo che si sentisse vicinanza e prossimità ma dovevo anche far si di mantenere una certa distanza per proteggere me stessa dalla potenza dei loro traumi, perché io stessa porto in me i miei propri traumi. Dovevo dunque stare attenta per non rischiare di perdere il mio equilibrio. Tutto ciò ha anche molto a che fare con quella che sembra essere una contraddizione in termini: cioè l’essere, in un certo qual modo, forte e fragile al tempo stesso. Anche le due altre donne che vediamo nel film, portano in sé questo tipo di contraddizione: sono forti per molte cose e fragilissime per molte altre. Per era dunque molto importante cercare di trovare un linguaggio visuale adatto ad esprimere queste contraddizioni. Tecnicamente mi sono concentrata su degli aspetti come l’immagine sfuocata e il buio, soprattutto nel segmento che ho girato a Damasco, il buio era molto importante perché per me la città è come un buco nero.
In effetti, le immagini che hai girato nell’appartamento di Damasco sono particolarmente suggestive e colpiscono per il contrasto estremo fra la luminosità dell’esterno e l’oscurità in cui è avvolto l’interno della casa.
Si, è proprio così perché chi si trova a Damasco ha l’impressione di non potere mai più trovare una via d’uscita dal buio. Io stessa, come Siriana, sento e penso che non ci sia più alcuna via d’uscita da tutto questo. A miei occhi il futuro che ci attende è molto buio; nessuno di noi riesce più ad immaginarsi quando e in che modo tutto ciò possa finire. E proprio questa sensazione che ho cercato, con tutte le mie forze, di tradurre in immagini e in suoni. La parte del film che ho girato a Damasco è stata molto dura per me perché durante tutto il periodo delle riprese, non facevo altro che pensare di dovere abbandonare la città al più presto possibile. Damasco è per me legata indissolubilmente ad un sentimento di nostalgia per un mondo che ormai non esiste più; ho vissuto a Damasco per 31 anni, quasi tutta la mia vita. Le riprese fatte in Svezia, al contrario, mi hanno messo difronte a un problema di natura diversa: mi sono chiesta come avrei potuto tradurre la solitudine del personaggio in immagini.
Heba è isolata ma questa sua solitudine è anche una sua scelta; è stata lei a volersi tenere lontana da tutto e da tutti. La sua storia personale è, già all’origine, di per sé molto complicata perché Heba é bipolare inoltre è mamma ed è anche una pittrice. Heba ha purtroppo perso molte persone care nella sua vita. Mi sono spesso chiesta come avrei potuto tradurre in immagini tutto questo. Il suono mi ha molto aiutato a strutturare questa parte del film. Sulla banda sonora si sente soffiare costantemente il vento, il che crea uno stato d’inquietudine e di tensione continua. Tra l’altro bisogna dire che questo suono esiste realmente nel luogo in cui vive Heba in Svezia. Quando sono arrivata sul posto per la prima volta il rumore ininterrotto del vento mi ha profondamente impressionato ed ho chiesto subito alla mia amica come potesse vivere con questo rumore tutto il tempo. La sua risposta mi ha sorpreso: mi ha detto infatti che io ero la prima persona a notarlo perché tutti coloro che vivono sul posto ci sono abituati e non ci fanno caso.
Il tuo film è una risposta alla domanda sul come si possa tradurre il dolore, la perdita delle persone cara, lo sradicamento e la solitudine in una serie d’immagini che non siano vuote e di parole che non siano vane, senza cadere nella tentazione del melodramma e del sensazionalismo…
E proprio così. In Siria viviamo un dramma continuo, non volevo assolutamente che il mio film fosse drammatico, volevo cercare di fare un film autentico cercando di trasmettere i sentimenti e le sensazioni che ho provato durante tutti questi anni di guerra. Per me Chaos è associato ad un periodo della mia vita che vorrei cercare di lasciare dietro di me, perché io stessa sento il bisogno di liberarmi di tutta la tristezza che porto nel mio cuore e che non ha a che vedere solo con la guerra ma anche con il semplice fatto della condizione umana in sé.
Trovo molto interessante la tua decisione di ritrarre le due donne in Siria e in Svezia quasi sempre all’interno del loro appartamento mentre nel segmento girato a Vienna l’attrice che ti impersona e impersona Bachmann allo stesso tempo cammina quasi incessantemente in città, eppure tu filmi questi luoghi come se fossero degli interni…
E proprio così! Volevo che pur trovandosi all’esterno, il personaggio si sentisse preso in uno spazio claustrofobico. Ed è proprio per questo che ho filmato l’attrice sempre nel centro del quadro mentre cammina all’infinito per delle strade che sembrano dei corridoi senza via d’uscita. Volevo esprimere anche la sensazione di alienazione che provo in questo paese che non è il mio. Ed è anche per questo che mi sono servita del doppio di una donna e di un’attrice bionda, proprio per sottolineare quest’alterità.
Le peregrinazioni del personaggio femminile a Vienna sono accompagnate dal suono persistente di campane. Per quale motivo?
Non saprei dirti esattamente perché ma quando ho effettuato le riprese a Vienna avevo l’’impressione di sentire molto spesso il suono delle campane. Per me questo è un modo per sottolineare l’alterità di Vienna rispetto all’ambiente sonoro che mi era famigliare a Damasco e che era costituito di suoni completamente diversi; il rumore continuo del traffico, la gente che grida per strada, il canto del muezzin dalle Moschee…Il suono persistente delle campane nel segmento filmato in Austria e, in modo analogo, il rumore del vento in Svezia diventano il simbolo di un grido di dolore che non riesce ad articolarsi; direi che, in fondo, questi suoni sono un grido!
Il montaggio è stato difficile?
Direi di no, perché tutte le scene sono state girate in modo molto preciso, con un piano molto chiaro per cui montarle in seguito non ha creato particolari problemi.
Chaos é dedicato a Hans Hurch, direttore della Viennale per vent’anni, improvvisamente mancato l’estate scorsa….
Lo spirito di Hans Hurch è presente in più di un senso in Chaos. Ho girato nel suo appartamento a Vienna, nel suo caffe preferito, il Caffé Engländer, che si trova proprio di fronte a casa sua. Ho filmato i posti che frequentava. Ho conosciuto Hans Hurch nel 2015 quando ho presentato il mio primo documentario, Coma, alla Viennale. Ci siamo incontrati per la prima volta durante una cena ufficiale del festival e lui si é subito avvicinato per chiedermi notizie della mia famiglia in Siria. Poi, verso la fine di del 2015, ho preso la decisione di lasciare definitivamente Beirut dove mi ero rifugiata in un primo tempo, per andare a vivere in Austria- dalla Siria ero già partita alla fine del 2014, cioè quattro fa. Per me questa é stata una decisione chiara che si é imposta come un’evidenza. Quando sono arrivata a Vienna, in qualche modo, Hans Hurch é venuto a saperlo- a quell’epoca era l’unica persona che conoscevo in questa città. Hans mi ha sostenuto ed aiutato tantissimo, é stato, in un certo qual modo, una sorta di ponte, di collegamento fra me e Vienna che non conoscevo per nulla.
Mi é venuto incontro anche quando ha saputo che stavo girando il mio secondo film mettendomi in contatto con il suo collaboratore Paolo Calamita che é diventato il produttore del film. Mi ha seguito anche durante la lavorazione di Chaos; ogni tanto ci incontravamo, mi dava dei consigli, m’incoraggiava ad andare avanti. E stato lui a consigliarmi di leggere dei testi di Ingeborg Bachmann che non conoscevo e che adesso fanno parte integrante del film. Chaos ha a che fare con la morte, la perdita e l’assenza, questi sentimenti non sono circoscritti all’esperienza della guerra in Siria e alle sue conseguenze ma hanno per me un significato universale. Chaos parla della perdita di ogni essere caro. In questo senso l’assenza dolorosa di Hans Hurch, che é venuto a mancare brutalmente un anno fa, permea profondamente il mio film.
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