Con un sottile effetto di sinergia messo in atto da una programmazione tanto curata quanto desiderosa di favorire la circolazione dialettica di soggetti, generi e stili da un film all’altro la programmazione del sesto giorno del festival di Locarno è stata marcata dalla presenza ravvicinata di due commedie indipendenti americane, nell’ordine: Somebody Up There Likes me di Bob Byington (Concorso internazionale) e Ape di Joel Potrykus (Concorso cineasti del presente).
Comune a questi due lavori è un senso dell’humor secco, sobrio, intriso di cinismo, basato sostanzialmente sul comportamento atipico di due giovani eroi maschi completamente sfasati rispetto alla realtà che li circonda, nonché sull’ uso di un registro lievemente fantastico. Max Youngmann, protagonista di Somebody up there likes me, e Trevor Newandyke, protagonista di Ape, affrontano la loro inadeguatezza in modo radicalmente diverso: le loro reazioni determinano alla volta il soggetto stesso e il linguaggio estetico delle due pellicole immergendoci di volta in volta in un’atmosfera estremamente stilizzata ed iperrealista, o gioiosamente trasgressiva e punk.
In Somebody up there likes me Bob Byington mette in scena trentacinque anni della vita di Max Youngmann, un personaggio destinato a restare nell’aspetto uguale a se stesso dal momento in cui, nella prima sequenza, lo vedremo aprire una misteriosa valigia ereditata dal padre e venire brevemente, nonché miracolosamente, bagnato da una luce bluastra; un bell’omaggio cinefilo alla famosa valigia che l’eroina di Kiss me deadly (R. Aldrich) apriva incautamente scatenando un disastro nucleare. In Somebody up there likes me Max, dischiudendo la valigia proibita, smette semplicemente di invecchiare.
Keith Pulson, attore non professionista, musicista ed amico del regista, incarna perfettamente il personaggio di Max che attraversa la sua vita, simbolicamente ritmata sullo schermo a scadenze quinquennali, con una sconcertante nonchalance. Ogni nuovo episodio viene introdotto da un disegno animato: delle nuvole bianche passano sullo sfondo di un cielo azzurro mentre i personaggi, brevemente schizzati in rotoscope da un grande esperto del genere, Bob Sabiston, si materializzano nella sequenza seguente. Disinvolto e scanzonato Pulson indossa con perfetta eleganza un’espressione attonita ed un distacco permanente ed apparentemente totale da tutto e da tutti.
La morte del padre, il suo primo divorzio, il matrimonio con la seconda moglie, Lyla, la nascita di suo figlio, il tradimento di Lyla con il suo migliore amico Sal – stupendamente interpretato dal caratterista Nick Offerman – e più tardi il tradimento della sua amante, la baby-sitter del figlio, con il figlio stesso sembrano lasciarlo relativamente indifferente ed, in fin dei conti, ben più stupefatto che infastidito.
“Dont’give it another thought!”, Non pensarci più su! è il consiglio che si danno a vicenda i due amici, di fronte alle difficoltà della vita, passando così costantemente ad altro. Neanche il successo professionale – ad un certo punto Max e Sal decidono di abbandonare il loro lavoro di camerieri per aprire un ristorante di sola “pizza e gelato” che fa furore e si converte ben presto in un’intera catena di locali – sembra cambiare l’atteggiamento di Max nei confronti dell’esistenza.
Con un’impronta molto personale e francamente anticonformista la sceneggiatura tocca una serie di soggetti in sé gravi; malattie, morti a catena, tradimenti e delusioni, eppure tutti i caratteri hanno in sé qualcosa di simpaticamente avvincente ed il tono della pellicola risulta gradevolmente leggero.
Le gag visive e verbali si susseguono a ritmo serrato. Il regista associa un’osservazione perspicace dell’arredamento urbano – oggetti e luoghi sono intelligentemente stilizzati – a delle digressioni argute sul significato etimologico delle parole. Max e Sal discutono sulla differenza semantica fra hypothetical e hypocritical, horror e error, sympathetic ed empathetic. I tic linguistici e le frasi fatte usate a sproposito come l’interiezione: “you guys!” entrano anch’esse a fare parte dell’inventario comico del film.
Gli abiti lievemente retro dei protagonisti, i colori tenui privilegiati nella scenografia, la fotografia nitida e luminosa, i temi musicali di Chris Baio che accompagnano e sottolineano con grande efficacia i vari episodi della vicenda si accordano perfettamente con un tipo di recitazione non naturalista dove la locuzione volutamente monocorde e distaccata riflette a perfezione la gamma emozionale assai ridotta dei personaggi.
Percorrendo una traiettoria circolare Somebody Up there likes me termina con una scena che riprende la sequenza d’esordio; alla morte di Max la stessa ragazza dell’inizio del film dà un appuntamento al figlio di Max per consegnarli la valigia azzurra che il padre gli lascia in eredità. Ovviamente anche il figlio di Max non si atterrà al divieto di aprirla… La valigia diventa così nell’economia della pellicola una specie di oggetto magico, una staffetta miracolosa che, passando da una generazione all’altra, rinnova all’infinito il ciclo meraviglioso ed assurdo della vita.
Sotto il tono asciutto ed imperturbabile degli scambi verbali, i colori pastello degli abiti ed un certo perbenismo di facciata Bob Byuington sa graffiarci dolcemente lasciando trapelare una visione alquanto fatalista dell’esistenza umana.
“Life is short!” è il messaggio di fondo della pellicola come ha spiegato il regista nel corso della conferenza stampa.
I piccoli dettagli incongrui della vita quotidiana di cui il film é fatto, si mischiano perfettamente con un fondo di satira sociale creando una filastrocca dolce-amara sul passare del tempo, sulla vanità e sull’ineluttabilità della morte. Somebody Up there likes me ci lascia un profondo senso di malinconia. Max – ma ognuno di noi è Max in fin dei conti – si vede letteralmente fuggire la vita fra le dita, passando impercettibilmente da una tappa all’altra della sua esistenza per arrivare, senza ben rendersene conto, a fine tragitto. Alla fine Max muore e tutto finisce così com’era iniziato… in modo inspiegabile e sorprendente.