Leos Carax è, nel panorama del cinema francese, un artista a parte. Autore di un’opera, radicale, eclettica, unica nel suo genere fatta di gemme – basti citare l’emblematico Les amants du Pont neuf – diventate sempre più sporadiche col passare del tempo.
Carax è ritornato sul davanti della scena cinematografica dopo più di dieci anni di assoluto silenzio nel 2007 con un cortometraggio, Merde, parte di un progetto a tre intitolato Tokyo! e, finalmente, nel 2012 con Holy Motors, presentato in selezione ufficiale al festival di Cannes.
Il festival di Locarno (edizione 2012) ha giustamente deciso di omaggiare il regista con un Pardo d’onore e con una retrospettiva integrale dei suoi film.
Olivier Père, direttore del festival, ha voluto farci un grande, bellissimo regalo offrendoci un incontro epocale con Leos Carax: in primo luogo con la sua opera, ma anche e soprattutto con l’artista e l’uomo Carax, nel corso di una lunga conversazione con il pubblico. Fra gli interlocutori del regista c’erano gli spettatori del festival, molti giornalisti, critici di cinema, colleghi registi e un moderatore d’eccezione: Olivier Père.
Occhiali da sole sul volto scarno, Carax – uomo della notte per eccellenza- si sentiva visibilmente a disagio nella luce accecante di un pomeriggio di agosto: timido, teso, di poche parole…
E poi, pian piano, fra una sigaretta e l’altra, sul filo delle domande, la parola si é sciolta, il discorso é diventato appassionante e appassionato. Una partitura complessa dove alle domande di Olivier Père e del pubblico faceva eco- dapprima titubante ed insicura, poi sempre più decisa e precisa- la parola dell’invitato d’onore rivelandoci pienamente Carax per quello che é: un artista immenso, un cineasta unico, un poeta dell’immagine, un uomo senza compromessi, talmente rigoroso ed esigente nei confronti di se stesso e della propria arte da essersi limitato, non senza sofferenza, ad un numero estremamente esiguo di opere – ancora più preziose per la loro rarità.
La sua parola si è liberata, illuminando i recessi oscuri della sua opera, quei passaggi talmente intimi ed intimamente legati al processo creativo da restare celati fra le pieghe nascoste dell’io.
Carax ci apre con una generosità commovente il suo laboratorio d’artista dove si affollano idee, emozioni, immagini, parole perdute, associate in una fede assoluta nel cinema. Il cinema come territorio esclusivo e come rifugio: Carax lo descrive come la sua patria, più precisamente ancora, la sua isola.
Un incontro storico. Chi ha avuto la fortuna di assistervi potrà sicuramente raccontare fra qualche anno: sì c’ero, ero lì anch’io!
Olivier Père: Leos Carax, vorrei in primo luogo ringraziarla per l’onore che ci ha fatto di accettare il nostro invito a questa discussione; la sua parola è rara e molto preziosa come lo sono i suoi film, forse un po’ meno rari, ma certamente sempre più preziosi nel tempo. Quando ho abbordato con Lei questo progetto di conversazione lei ci ha tenuto subito a precisare che sarebbe stato necessario trovare un angolo, un’impostazione evitando a tutti i costi il soggetto della cinefilia. Vorrei sapere perché? La cinefilia rappresenta per Lei una sorta di malattia del cinema? E un qualcosa di negativo o è piuttosto, per così dire, l’idolatria delle immagini e dei film che le dà fastidio?
Leos Carax: Innanzitutto vorrei scusarmi con tutti; per me parlare di cinema è un incubo, parlare poi di cinema in pieno giorno, alla luce del sole è un incubo enorme! Il cinema è per me qualcosa di notturno, fatto per gli amanti della notte e per i cacciatori, voilà! Cercherò di farlo comunque…(sorride) Ritornando alla domanda: non mi considero cinefilo, ho visto senza dubbio molti film quando ero giovane; dei film di cinema muto, dei film americani e russi e poi quelli della nouvelle vague. Ho scoperto i film nello stesso momento in cui ho cominciato a fare del cinema, diciamo dai miei sedici ai miei venticinque anni, più o meno. Penso di avere pagato il mio debito d’amore nei confronti del cinema nei miei primi due film; da quel periodo in poi, devo ammettere, vado molto meno al cinema. Amo sempre il cinema pur non guardando dei film in continuazione…
Olivier Père: In effetti, parlando di Holy Motors ha spiegato che il ‘motore’ del film era il cinema ma che il suo carburante era la vita stessa!
Leos Carax: Direi piuttosto il linguaggio… Il linguaggio di un film può essere difficile per uno spettatore adulto, probabilmente un bambino non avrebbe questo tipo di problema. In Holy Motors ci sono certamente meno riferimenti cinefili che in molti altri film, ma visto che il linguaggio del film è il cinema stesso, questo sembra disturbare molto la gente…
Oivier Père: Holy Motors è certamente un film che parla di cinema, che interroga l’essenza stessa del cinema. D’altra parte però è anche, a mio avviso, uno dei film più originali, più nuovi che si possano vedere ed immaginare in questo momento…
Leos Carax: Per me Holy Motors è un film semplice, se si accetta di non sapere dove si sta andando durante i primi venti minuti…
Olivier Père: Lei pensa che un film come Holy Motors, un film sul cinema, sia difficilmente accettabile al giorno d’oggi?
Leos Carax: Non saprei dire, non conosco bene il pubblico; suppongo che, in una qualche misura, il pubblico al giorno d’oggi sia più impaziente. Penso che l’esposizione continua ad un certo tipo di spettacolo come le serie di telefilm americani ne abbiano influenzato considerevolmente i gusti e le aspettative. Non saprei dire di più; devo ammettere di non conoscere lo stato attuale del cinema…
Olivier Père: Secondo lei Holy Motors è un film contemporaneo o piuttosto un film marcatamente poetico e per questo, in un certo senso, completamente a parte nel panorama del cinema di oggi?
Leos Carax: Direi che entrambi questi aspetti fanno parte del film; c’è sicuramente una parte d’orgoglio, il fatto di non sentirsi contemporaneo, la sensazione di appartenere ad un altro tempo, in fin dei conti… D’altra parte io cerco sempre di fare entrare ‘la vita’ nei miei film ed è proprio per questo, anche se non solo per questo, che spesso le rirpese dei miei film durano mesi e mesi… In linea di principio le prime settimane di riprese per me sarebbero sempre da buttare via; tutti sono talmente concentrati su quello che si sta facendo da creare un’atmosfera completamente asfittica. Il risultato è per forza un disastro. Cerco sempre un modo per girare di nuovo le scene dei primi giorni più tardi, oppure inizio con delle cose che verranno buttate via in un modo o nell’altro.
Quando parlo di vita mi riferisco alla mia propria vita e a quella di tutte le persone che prendono parte al film. Le riprese di un film non sono come un tunnel nel quale si entra isolandosi da tutto il resto, per me è necessario che questo processo possa ricongiungersi con l’esperienza della nostra vita di tutti i giorni. Nel processo di fabbricaz
ione di un film, in un primo tempo, si costruisce per forza di cose una specie di tunnel ma è assolutamente necessario distruggerlo in seguito.
Olivier Père: Sono d’accordo con Lei quando afferma che con i suoi due primi film, Boy meets girl (1984) e Mauvais sang (1986), lei salda, in un certo senso, il suo debito nei confronti del cinema e della storia del cinema. Con Pola X invece entra in un territorio completamente nuovo. Pola X era un progetto estremamente ambizioso in cui effettivamente ne andava dello stato del mondo, della guerra e delle frontiere dell’Europa ed è per questo che il film è stato ampiamente incompreso all’epoca, per trovare un suo pubblico e venire apprezzato solo molto più tardi…
Leos Carax: Penso sia molto difficile capire il perché un film possa piacere o meno; senza dubbio Pola x è, fra tutti i miei film, quello che è piaciuto di meno. Non guardo i miei film quindi non saprei dire cosa ne penso oggi. Comunque non ho mai avuto la paura del ridicolo nei miei film; certamente molti li ritengono grotteschi e penso ciò valga in particolar modo per Pola X…
Dal pubblico: Come è riuscito a convincere un uomo così raro e prezioso come il musicista Gérard Manset a dare il suo accordo per l’utilizzazione della sua canzone nel finale del film?
Leos Carax: Direi che le cose si sono fatte in modo assai semplice; avevo sentito la canzone di Gérard Manset e mi piaceva molto, l’ho quindi contattato per chiedergli l’autorizzazione ad utilizzarla. L’unica condizione che mi ha posto è stata quella di vedere prima le immagini della sequenza finale. E’ venuto sul set durante le riprese di questa sequenza, quello che ha visto gli è piaciuto ed ha detto di sì…
Dal Pubblico: Cosa ne pensa del fatto che nello stesso anno e quasi allo stesso momento siano usciti due film come il suo Holy Motors e Cosmopolis di Croneberg così simili per il dispositivo che utilizzano?
Leos Carax: Penso che queste limousine lunghissime siano affascinanti, a me sembrano un ottimo motore capace di generare della finzione; sono alla volta erotiche e morbose, sono fatte per essere viste e allo stesso tempo sono opache, non lasciano intravedere nulla di quello che accade al loro interno. Sono come una sfera virtuale; quando ci si ritrova all’interno non si è più nella vera vita. Per tutte queste ragioni trovo assai comprensibile che diversi cineasti ne traggano ispirazione…
Olivier Père: Questa limousine fa pensare anche ad un’enorme cinepresa, un’enorme scatola nera con una finestra, un’apertura verso il mondo esteriore …. Per me Holy Motors è, fra le altre cose, un film contro il virtuale, un film che celebra l’incarnazione, il corpo in sé, le macchine. E d’accordo?
Leos Carax: Non saprei dire se è un film contro il virtuale… Io amo molto l’invisibile, ma il virtuale – ovviamente – non è l’invisibile, lo si potrebbe comparare forse con una versione pigra dell’invisibile. L’invisibile è abitato, il virtuale invece ci viene proposto come un mondo che noi abiteremmo in teoria, un mondo in fin dei conti senza esperienza. Questo è un fenomeno che si può vedere molto chiaramente nelle così dette ‘guerre virtuali’, nella nozione perversa di ‘zero morti’, in un aereo da guerra come il drone che viene comandato a distanza per cui non si sente più il peso della responsabilità e, di fatto, è come se la responsabilità non ci fosse più. Direi che, indirettamente, Holy Motors parla di tutte queste cose, senza teorizzarle.
Quando ho cominciato a fare cinema c’erano ancora le cineprese, le cineprese con un motore ed una pellicola. Quando ho girato il mio primo film, a diciassette anni, l’ho fatto con una Mitchell, che era una cinepresa enorme, bellissima… I miei ultimi film invece li ho girati con degli oggetti che possono stare nel palmo di una mano:sicuramente con una cinepresa del genere ci si sente molto meno ‘potenti’, è quasi impossibile credere che degli arnesi così ridotti possano effettivamente compiere tutti questi compiti.
Bisogna avere della fede per fare del cinema; se la propria fede è debole, allora diventa difficile.
Dal pubblico: Quando ha girato Mauvais sang nell’86, aveva più o meno l’età dei suoi protagonisti. Ciò che sorprende ancora oggi nel film è la sua capacità a guardare la sua generazione con un distacco, lucido e pacato. Come aveva fatto?
Leos Carax: Ad essere sincero non mi ricordo neanch’io come avevo fatto all’epoca… Ho scoperto il cinema a sedici anni; a quel punto ho trovato il mio paese o piuttosto la mia isola. Per me il cinema è come un’isola, un luogo circondato d’acqua che non può essere raggiunto facilmente. Quando si è nel mezzo della vita forse è più difficile osservarla ma quando ci si trova ad una certa distanza, su quest’isola appunto, guardarla diventa più semplice, è un po’ come trovarsi dietro un vetro, in un altro mondo rispetto al mondo reale. Ad ogni modo questo è quanto io amo nel cinema: spesso la gente dice che i film sono dei sogni, non sono d’accordo. L’esperienza della proiezione dei film è un sogno, ma non i film stessi. La sequenza iniziale di Holy Motors si riferisce proprio a quest’esperienza. Scoprire il cinema per un bambino è un qualcosa di molto forte; trovarsi in una sala di cinema circondati dall’oscurità, nel bel mezzo di una folla di sconosciuti, con dietro alle spalle una macchina enorme che proietta un qualcosa che è molto più grande di noi… Quest’esperienza può sembrare simile ad un sogno, ma fare dei film in sé direi proprio di no. Sono veramente molto riconoscente al cinema per avermi offerto un mondo in cui abitare… I miei primi due o tre film sono nati in quello stato di amore.
Dal pubblico: Quali sono i problemi di montaggio ha dovuto affrontare nel corso della post-produzione di Holy Motors?
Leos Carax: Adoro il montaggio, il vero problema del montaggio è che ad un certo punto bisogna fermarsi e poi, durante il montaggio, s’incomincia a pensare per la prima volta agli spettatori. Ho sempre detto che i film si fanno per i morti, ma che li si mostra ai vivi! Ad un certo punto bisogna ben pensare un po’ a loro… Durante il montaggio mi sono chiesto se il pubblico sarebbe riuscito a trovare facilmente una porta d’ingresso al film, oppure questa porta si sarebbe manifestata solo alla fine della pellicola. Ho cercato di fare attenzione proprio a questo, non so se ci sono riuscito…
Olivier Père: Nei film che ha fatto da giovane c’era una specie di saggezza, una forma di melanconia, uno sguardo molto più adulto rispetto alla sua età anagrafica, in Holy Motors invece e ancora prima in Merde ci
sono delle gag, degli aspetti burleschi, molto humor come se lei ringiovanisse invecchiando, come se si sentisse più libero e più vicino a delle cose comiche…
Leos Carax: Non saprei bene cosa risponderle: ho filmato talmente poco negli ultimi anni che se non avessi trovato in me questo slancio un po’ comico, grottesco o farsesco come lei dice, sarei morto… Merde mi ha fatto veramente del bene perché era da molto tempo che non giravo più un film. Guardando bene dai miei venti ai miei trent’anni ho fatto tre film, dai trenta ai quaranta ne ho fatto uno e da quaranta a cinquanta ho fatto 40 minuti… Quelli appunto di Merde. Le cose andavano piuttosto male direi, dovevo trovare qualcosa per sbloccare questa situazione… Le cineprese digitali che odio tanto mi hanno in realtà offerto un vero servizio permettendomi di filmare velocemente e a basso costo, ma allo stesso tempo ho dovuto abbandonare un sacco di cose. A partire da Merde, per esempio, non ho più guardato le riprese filmate di volta in volta… quello che vedete sullo schermo non è più totalmente il mio lavoro, né quello del direttore della fotografia ma é un qualcosa di aleatorio una risultante di tutte queste macchine e dello schermo che voi avete scelto per vedere il film. Sotto queste condizioni risulta molto difficile ormai interessarsi veramente all’immagine…
Olivier Père: Sono d’accordo: oggi non sarebbe più possibile fare un film come, per esempio, il suo Les amants du pont neuf. Lei forse è stato uno degli ultimi a potere ancora approfittare di quel cinema all’antica con tutti gli artigiani e gli operai che si adoperavano a costruire le scenografie e la decorazione del set; oggi basta utilizzare uno schermo blù o verde, tutto è virtuale…
Leos Carax: La prossima tappa dello sviluppo della tecnica cinematografica è quella dell’eliminazione del montaggio e della postproduzione; tutto questo sarà già fatto durante le riprese stesse attraverso un sistema di motion control e di fondi verdi… Le generazioni a venire nasceranno cinematograficamente con queste nuove tecniche. Io stesso quando avevo iniziato a fare dei film alla fine degli anni settanta mi ero trovato in un’epoca di transizione riguardo alle cineprese: il mio primo film l’ho ancora girato con una cinepresa enorme, ma già per il mio secondo e per il mio terzo film mi sono servito di cineprese più piccole. Quando si guarda un carellata che risale ai primi tempi del cinema, un carello di Murnau per esempio, si percepisce molto chiaramente la pesantezza delle macchine … Guardando, invece, un uomo seguito da una cinepresa su Youtube non si avrà certamente quel tipo di sensazione. Ricreare questo tipo di sensazioni attraverso dei metodi nuovi è ormai il vero lavoro dei nostri giorni.
Olivier Père: Quindi, secondo Lei, i cineasti si pongono oggi delle questioni di messa in scena completamente diverse rispetto al passato perché i mezzi a loro disposizione sono cambiati…
Leos Carax: Questo processo é assolutamente necessario se non si vuole correre il rischio di fare delle semplici fotocopie di cose che esistono già; bisogna inventare delle cose nuove, sempre!
Dal pubblico: Che rapporto ha con la bellezza?
Leos Carax: Con la bellezza ho un rapporto eccellente! (risata generale) Ovviamente questo rapporto cambia con il tempo e con l’età. La ricerca della bellezza quando si è giovani é quasi compulsiva: si cerca la bellezza di continuo e ad ogni costo, dappertutto… Oggi invece, per quanto mi riguarda, la lascio soprattutto venire verso di me e spesso la trovo in cose che non sono per forza percepite come belle anche dagli altri. Sicuramente si approda al cinema per questa via, cioè attraverso la ricerca della bellezza: Holy Motors tratta anche di questo… Comunque sia la bellezza è uno dei più grandi misteri: il gusto di ogni essere umano e, in sé e per sé, qualcosa di assolutamente inesplicabile. Quando da ragazzo ho scoperto il cinema a Parigi ho sentito che questo per me era il solo luogo in cui mi sentivo sicuro del mio gusto personale. Guardando solo venti secondi di un film so dire subito se è un film ‘copiato’ o se è inventato, riesco a sentire subito quella parte di sincerità nel film che è necessaria, ma che, presa da sola, non è di certo sufficiente per fare un buon lavoro. Ecco, io tutto questo lo percepisco immediatamente; come ho già detto, il cinema è la mia isola personale!
Olivier Père: Ho l’impressione che le parole siano altrettanto importanti per Lei; che si tratti delle parole della poesia o delle parole del testo di una canzone. Poco fa abbiamo citato Manset ma se ripenso ai suoi film mi viene in mente cantanti come Barbara, David Bowie o ancora Gainsbourg. E’ d’accordo?
Leos Carax: Le parole sono importanti per me, le prendo in prestito da altri, le utilizzo ma, pur sempre, non sono la mia ‘patria’… Quanto cerco di fare attraverso la musica, la danza o le canzoni è ricreare al cinema una vita in musica! Avrei voluto poter vivere io stesso una vita in musica e nella musica, essere un compositore, un musicista, un cantante. Invidio le vite di questi artisti che possono attraversare tutto il mondo con pochi bagagli, si possono spostare ovunque, trovare una vecchia chitarra in un angolo e suonare, scrivere, comporre. Nei miei film ho sempre cercato di approfittare delle parole, delle canzoni e dalle musiche degli altri; quello che mi ha sempre affascinato è stato il trovare un modo per introdurre questi elementi estranei nel film.
Olivier Père: In Holy Motors è stato Lei a scrivere le parole della canzone che canta Kylie Minogue. In fin dei conti la sequenza girata con lei nella Samaritaine ha ben qualcosa di una commedia musicale…
Nota: (La Samaritaine è un grosso supermercato di lusso nel centro di Parigi chiuso al pubblico per ristrutturazione. Carax ha potuto filmare nel cantiere in corso e sulla terrazza dell’edificio che gode di una vista splendida sulla città.)
Leos Carax: Sì, in effetti, ho scritto le parole della canzone ma non ho scritto la musica. Non penso che si possa parlare di commedia musicale per questa sequenza: si canta e c’è una coreografia, ma non c’è della danza nel senso proprio del termine. Tutto ciò è scaturito dal miracolo dell’incontro con Kylie Minogue, solo due mesi prima non avrei mai pensato di girare con lei, la conoscevo di nome, ma non sapevo chi fosse nella vita reale. Kylie è una persona completamente pura, con l’animo di una bimba. Il nostro incontro è stato un po’ come quelle favole dove l’eroe vaga perduto in un bosco e improvvisamente s’imbatte in una buona fata che canta sul suo cammino. Ho dunque approfittato di questa sua purezza nella sequenza alla Samaritaine. Poco prima mi riferivo all’autarchia dei musicisti senza parlare della loro solitudine… La bellezza del cinema consiste proprio in questo: non si possano fare dei film da soli, senza l’aiuto degli altri. Per fare un film ci vuole della salute, dei soldi ed almeno due o tre persone!
Olivier Père
: Lei ha la fama di essere un cineasta solitario, silenzioso, misterioso ma il cinema, come giustamente ha detto, è un lavoro d’equipe. Le rirpese di un film comportano la direzione di un’equipe composta spesso da persone assai diverse fra di loro. Come si sente Lei durante le riprese?
Leos Carax: Nel corso delle riprese ho vissuto i migliori ed i peggiori momenti della mia vita. Mi sono spesso sentito come un impostore. Non ho mai studiato cinema, non sono mai stato su un set e non ho mai lavorato su un altro film prima dei miei. Andare in giro a diciotto anni dicendo alla gente: “Voglio fare un film e lo so fare, datemi dei soldi!”, é certamente un’impostura! Questo sentimento d’impostura si è paradossalmente rivelato molto ricco ma non ha mai smesso di accompagnarmi; giro così poco che ad ogni nuovo film non mi sento più un cineasta…
Olivier Père: Ha l’impressione di dovere ricominciare ogni volta da zero?
Leos Carax: In un certo senso sì, soprattutto ho l’impressione che la gente dell’equipe mi guardi pensando: “Questo tipo non ha più girato da così tanto tempo, cosa ci farà fare?” In fin dei conti questa situazione è salutare: considerare ogni film che si sta per fare come se fosse il primo e l’ultimo, obbliga a dare il meglio di se stessi. Ad ogni modo, anche se avessi potuto farlo, non avrei voluto fare molti più film di quelli che ho fatto…
Dal Pubblico: Potrebbe parlarci della partecipazione a quasi tutti i suoi film del suo attore-feticcio Denis Lavant?
Leos Carax: Non conosco Denis in privato, anche se abbiamo fatto cinque film insieme… Abbiamo la stessa età e la stessa statura. L’ho incontrato quando avevo ventidue anni; avevo visto la sua foto nel mezzo di un mazzo di foto di giovani attori. Stavo cercando l’attore principale per il mio primo film, avevo ritardato l’inizio delle riprese di un anno perché non riuscivo a trovare il ragazzo che andava bene per quel ruolo. Ero disperato; mi dicevo che non sarei mai riuscito a incontrare il ragazzo che avevo in mente, che non sarei mai riuscito a fare il mio primo film e che quindi non avrei mai fatto del cinema, per niente… Poi ho visto Denis con il suo fisico molto particolare… Non ero ancora sicuro di me al cento per cento quando gli ho proposto di iniziare con me quest’avventura. Poi, una volta finito il film, ho pensato di non avergli dato l’opportunità che si meritava visto che era entrato a fare parte di un progetto che esisteva già in anticipo e che non era stato pensato espressamente per lui. Da quel punto in poi ho iniziato ad immaginarmi dei film fatti su misura per lui; ogni volta ero sempre più impressionato dalla sua forza espressiva che cresceva in maniera esponenziale. Mi sono reso conto che fisicamente avrei potuto praticamente chiedergli quasi di tutto; se gli avessi domandato d’imparare a fare un doppio salto mortale per un film sono sicuro che l’avrebbe fatto. Mi sento un po’ come Tex Avery con lui. Dopo avere girato Merde mi sono reso conto che oggi può interpretare dei ruoli che non avrebbe mai potuto fare in passato: un vecchio che muore, un padre di famiglia Come dicevo prima: non conosco Denis, non abbiamo mai cenato insieme, non è un amico ma, per una certa forma di film, cioè tutti i film che ho fatto con lui, mi è assolutamente indispensabile!
Dal pubblico: Qual è il significato del titolo Holy Motors e perché un titolo in inglese?
Leos Carax: A posteriori penso che il film possa essere letto come un film d’anticipazione, un film futurista, un film di fantascienza in un certo senso dove gli uomini, le bestie e le macchine formerebbero una comunità solidale contro il dilagare del mondo virtuale. In questo contesto, visto che amo molto le macchine, ho immaginato che avessero un cuore, questo cuore l’ho battezzato motore sacro, holy motor appunto. L’inglese è ricorrente nella scelta dei miei titoli: io sono metà francese e metà americano. Infine, Holy Motors è il nome del garage – come si vede alla fine del film – dove vanno a ‘dormire’ tutte queste enormi limousine di notte, un luogo un po’ internazionale dove si parlano varie lingue fra cui anche l’inglese…
Dal pubblico: Ho l’impressione che ci sia una sorta di contraddizione; da un lato afferma di amare le “macchine” e dall’altro rifiuta il rapporto con il mondo virtuale di oggi…
Leos Carax: Non ho nessun problema a lavorare e a servirmi di un computer, ma perché io possa definire un oggetto come ‘macchina’ devo poter vedere il suo motore, il motore deve esistere insomma ed essere visibile in quanto tale… Dal momento in cui non posso vedere e toccare tutto questo per me siamo nell’ambito della comunicazione. Le nuove cineprese sono dei computer e non delle macchine, si possono fare un sacco di cose bellissime usandole, ma c’inducono a credere che tutto sia tecnicamente possibile. Mi si è spesso rimproverato, soprattutto riguardo a Les amants du Pont Neuf, di volere rendere le cose impossibili. Ho sempre sentito la necessità di passare ad un certo punto attraverso l’impossibile! Cocteau diceva: “A l’impossible on est tenus!”. Il che significa: filmare in opposizione alla sceneggiatura e montare in opposizione alle riprese… Quando si vuole fare qualcosa di nuovo bisogna mettersi ‘contro’! Il problema è che le cineprese digitali non sono nè ‘per’ né ‘contro’… Non sono neanche on e off. Basta schiacciare un bottone ed è fatto! L’esperienza del tempo è azzerata con questa tecnologia. Per ritrovare quest’esperienza bisogna essere in grado di inventare dei nuovi rischi, delle nuove sfide che sia attraverso la materia narrativa, l’immaginazione o un modo diverso d’impostare i rapporti con la propria equipe. Solo attraverso un approccio di questo tipo il passaggio dalle vecchie alle nuove tecniche e l’evoluzione della tecnologia diventano di nuovo interessanti.
Dal pubblico: Serge Daney diceva che una certa tradizione del cinema francese stava piano, piano scomparendo e che bisognava preservarla ad ogni costo. In questo contesto citava Chantal Akermann, Jacques Doillon, Louis Garrel e Leos Carax… Qual è il suo punto di vista sul cinema francese: secondo lei esiste una sorta di comunità cinematografica come quella che descrive Serge Daney al giorno d’oggi?
Leos Carax: Questo era il punto di vista di Daney; io spero di non fare parte di nessuna tradizione, anche se é inevitabile. Non sono in grado di fornire alcun tipo di riflessione sul cinema francese in generale; in linea di massima non m’interessa ad eccezione di due o tre cineasti che stimo molto. Non sento di fare parte di una cinematografia nazionale. Quando penso al cinema, penso al cinema in generale…
Olivier Père: Pur facendo i suoi film in Francia lei ha un pubblico internazionale che la segue fedelmente, nonostante i lunghi periodi di interruzione e di silenzio, sia in Giappone che negli Stati Uniti. Il suo lavoro ha sempre risvegliato l’interesse,
l’ammirazione e la passione degli spettatori del mondo intero. Come se lo spiega?
Leos Carax: Per continuare a fare del cinema bisogna vendere dei biglietti, io non ho mai fatto dei successi al box-office, oppure bisogna vincere dei premi, io non ne ho mai vinti… A questo punto bisogna almeno che i film viaggino, se no finiscono per non esistere più… Ho avuto la fortuna di poter distribuire i miei film in giro per il mondo: i miei film non hanno venduto molto da nessuna parte, ma hanno viaggiato dappertutto!
Abi Sakamoto (programmatrice Tokio): Qual è stata la sua esperienza di lavoro con la grande attrice francese Edith Scob, in Holy Motors?
Leos Carax: Avevo già filmato Edith Scob vent’anni fa in Les amants du pont neuf e poi, in sede di montaggio, non sono più rimaste che le sue mani ed i suoi capelli… Per questo ho sempre sentito di “doverle” un film. Quando ho iniziato ad immaginare Holy Motors mi sono chiesto chi avrebbe potuto trasportare Monsieur Oscar da una vita all’altra – perché era proprio questa la storia del film: la vicenda di un uomo che viaggia da una vita all’altra spostandosi in una macchina enorme… La prima immagine che mi è venuta in mente è stata quella di un’allegoria della morte così come viene comunemente rappresentata nell’universo della pittura, a quest’immagine ho subito associato la figura longilinea ed il volto scarno, bianchissimo di Edith Scob. Edith Scob è una persona singolare, per me lei e Kylie Minogue sono le due fate del film: entrambe hanno lo stesso pallore, gli stessi capelli chiari, la stessa purezza d’animo e lo stesso spirito infantile…
Jean Baptiste Morin (Les Inrokuptibles): Prendendo spunto dalle discussioni che abbiamo avuto in redazione sul film Holy Motors direi che, in linea generale, il suo pubblico è un pubblico di cinefili. Esiste una spiegazione, secondo lei?
Leos Carax: Non penso che Holy Motors tocchi solo dei cinefili ma, in fin dei conti, un film è sempre un qui pro quo… A dire il vero non saprei dire gran cosa del pubblico e degli spettatori, come dicevo prima: si fa un film per i morti, ma lo vedono i vivi. Ogni volta che uno dei miei film esce in sala ho sempre la sensazione di essere alla ricerca di uno spettatore o di una spettatrice che ‘manca’, qualcuno che non è venuto mentre lo stavo aspettando…
Bradley Rust Grey (regista di Jack and Diane) : Quando Lei inizia a lavorare alla sceneggiatura è come se vedesse nella sua mente tutto il film in una volta o l’intuizione del film é piuttosto condensata in un’unica immagine originaria che si sviluppa in seguito…
Leos Carax: Non sono uno scrittore, non posso veramente parlare troppo della sceneggiatura, anche se, ad un certo punto, devo per forza scriverne una se voglio presentare il mio progetto a dei produttori e cercare un finanziamento. Per me un film inizia con due, tre immagini, due, tre sentimenti, quanto accade di lì in poi sono tutte coincidenze. Riguardo a Holy Motors le prime immagini che mi hanno colpito sono state quelle delle enormi limousine; le avevo già viste durante i miei viaggi negli Stati Uniti, improvvisamente le ho ritrovate anche nel mio quartiere a Parigi. I cinesi che abitano nella zona se ne servono per i loro matrimoni. Una seconda immagine molto importante per la genesi del film è stata quella di una anziana Rom addossata al parapetto di un ponte sulla Senna. Ricordo che guardandola ho pensato che non avrei mai potuto comunicare veramente con lei perché i mondi in cui viviamo sono totalmente diversi. Ho pensato di fare un documentario su una di queste donne, ma temevo che se avessi iniziato a farne uno, probabilmente avrei speso il resto della mia vita per portarlo a termine. Ho deciso d’imboccare la strada opposta facendo di questa donna un personaggio di finzione interpretato da Denis Lavant… A questo punto in cui mi è venuta in mente l’idea che queste grandi macchine avrebbero condotto l’attore Denis Lavant da una vita all’altra; l’esperienza di questo passaggio da una vita all’altra è quello che mi interessa veramente nel film…
Dal Pubblico: Cosa vorrebbe cambiare su questa terra, se potesse?
Leos Carax: Quello che m’inquieta è la nostra mancanza di coraggio, ho l’impressione che il coraggio diminuisca, ovviamente non parlo solo di cinema; il coraggio fisico diminuisce, quello civico e quello politico. Bisognerebbe istituire dei corsi di coraggio nelle scuole. Nel mondo del virtuale quelle che si chiamano reti, non sono delle reti di resistenza, sono al contrario delle reti di connivenza, che danno a chi vi partecipa l’impressione di essere grande ed importante mentre è vero tutto il contrario…
Dal pubblico: La mancanza di fiducia in se stessi può essere considerata a suo avviso come una mancanza di coraggio?
Leos Carax: Se penso a me stesso da ragazzo non posso dire di avere avuto fiducia in me stesso, ma credevo fermamente di dovere cercare di fare le cose che mi stavano a cuore. Se c’insegnassero che bisogna “scrivere” la propria vita forse questo sarebbe l’inizio del coraggio…
Le foto sono di Maria Giovanna Vagenas