Selezione di punta del Festival, il Concorso Internazionale presenta uno stimolante panorama in cui convivono opere prime di giovani talenti accanto ai lavori di registi affermati, e dove si mescolano classicismo dei primi e audacia formale dei secondi. Nel caso di Slipstream di Anthony Hopkins (alla sua terza regia) e Ladrones, primo lungometraggio del giovane spagnolo Jaime Marquez, si assiste ad uno scambio dei ruoli nella ricerca di una nuova poetica cinematografica: sperimentale e anticonvenzionale il primo, quanto classico e rigoroso il secondo. Slipstream ha molto in comune con il cinema di David Lynch: nel film, a tratti lineare e narrativo, si inseriscono alcuni eccessi allucinatori e onirici che divengono i passaggi di maggiore pregnanza nella ricostruzione del suo senso generale. Lo sceneggiatore Felix Bonhoeffer (interpretato dallo stesso Hopkins) vive una sorta di doppia vita in cui i personaggi della realtà si mescolano a quelli delle sue storie fino a sovrapporsi e a sostituirli. La coscienza del protagonista poco a poco si sfalda e si immerge in un mondo di sogni e pensieri di cui è difficile cogliere subito l’enigmatica manifestazione (come nelle avventure di Alice nel paese delle meraviglie). Contemporaneamente alla manipolazione delle forme e dei contenuti come tentativo di ridefinire l’oggetto del film, Hopkins si allontana da quegli standard hollywoodiani di cui esplora freddamente le patologie, offrendo uno sguardo satirico e impietoso dell’industria cinematografica americana contemporanea, ossessionata dagli incassi e dalla celebrità. Così, in una delle scene tratte dalla sceneggiatura scritta da Felix (il film nel film) che si sta girando nel deserto del Nevada (appartiene o non appartiene alla“vita reale” del protagonista?), quando uno degli attori (Christian Slater) ha il cattivo gusto di morire sul set, il film tocca uno dei momenti più alti di mordace ironia nello scambio di battute tra il regista (“Sei sicuro che è morto?”) e il medico sul set (“Che vuoi dire? Certo che è morto. E’ estremamente morto!”). Il cast, composto da attori ultranoti (oltre a Christian Slater, Jhon Turturro, Kevin McCarty, che appare interpretando se stesso in riferimento al  più volte citato L’ invasione degli ultracorpi di Don Siegel), mette in scena una sorta di plastico della vita reale che non è mai nichilista, piuttosto un giocoso tentativo d’indagine nel caos della vita e nell’affascinate mondo delle illusioni. Alla fine, i frammenti visivi convulsamente disseminati lungo la narrazione si ricompongono in una conclusione che riconosciamo palesemente iscritta nel testo.

Ladrones mette in scena la necessità dell’amore, l’alienazione e la solitudine della metropoli, la schiavitù dei ricordi, inserite in un contesto urbano vivido e pulsante di dolore sotterraneo. Alex a sette anni viene messo in un orfanotrofio dopo che la madre è stata arrestata durante un borseggiamento sulla metropolitana di Madrid. Lo ritroviamo adolescente, alla ricerca di quella madre che non ha più visto, mentre tenta di ricostruirsi una vita. Lavora come apprendista in un negozio di parrucchiere, ma deterministicamente il suo destino lo riporta nuovamente verso il giro dei ladri di strada. Un giorno incontra Sara, studentessa di buona famiglia che vuole “giocare” all’arte del borseggio, e tra i due ha inizio una storia d’amore che va al di là di una semplice avventura adolescenziale. Il regista mette in scena l’eterno conflitto tra la propria felicità e quella dell’essere amato utilizzando uno stile estremamente estetizzato, composto da ricercatezze fotografiche, da ralenti, da sequenze sottolineate dal potere evocativo di una musica onnipresente,  dalla concretezza dei corpi e dalla coreografia dei movimenti di seduzione che i personaggi mettono in atto durante le scene di borseggiamento. Un’opera intimista e romantica (realizzata forse con un eccesso di maniera) in un mondo in cui i film si limitano a raccontare storie “eccitanti” più che commoventi.

Ancora un’esplorazione nel mondo dell’adolescenza e delle incomunicabilità familiari con il tedesco Frührer oder Späder (in italiano “Presto o tardi”), primo lungometraggio della regista Ulrike von Ribbeck. L’apparente felicità di una famiglia media che vive in tranquillo sobborgo di Berlino (Annette, suo marito Uwe e la figlia Nora) viene messa in crisi quando l’arrivo di un vicino (Thomas, vecchia fiamma di Annette) fa esplodere passioni, incomprensioni e frustrazioni latenti che prendono corpo in un racconto nel quale la regista oscilla tra partecipazione emotiva e eccessiva caratterizzazione ironica e distaccata dei personaggi. Questa incapacità nel decidere il registro della narrazione determina il succedersi di momenti di buona intuizione delle fantasie del mondo adolescenziale e di altri decisamente convenzionali (Thomas, attore in declino, cerca conferme al suo fascino attraverso la seduzione continua di tutti quelli che incontra; Annette, quarantenne in crisi, si abbandona ad un’avventura con un suo studente in risposta ad un marito gretto e insensibile alla sue aspirazioni). Questo slittare da un registro all’altro a lungo andare stanca, in quanto definisce l’ambiguità come fine a se stessa più che come elemento necessario nella complessità delle relazioni.

Nella sezione Piazza Grande,  segnaliamo uno dei film più intensi che speriamo di vedere nella prossima stagione cinematografica: Vogliamo anche le rose di Alina Marazzi. Dopo la Menzione speciale della giuria nel 2002 con Un’ora sola ti vorrei, la regista conferma il suo talento e la sua sensibilità raccontando questa volta il profondo cambiamento portato dal movimento per la liberazione sessuale femminile in Italia, tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta. Le tre storie private, riportate sui diari di donne appartenenti a regioni e a classi sociali differenti, hanno come denominatore comune la stessa rivendicazione: quella di vederle riconosciute al di fuori di una società patriarcale, maschilista e maritale che le vuole far tacere incasellandole in un ruolo prestabilito. Attraverso un lavoro di montaggio che accosta fotografie, fotoromanzi, filmini di famiglia, programmi televisivi e pubblicità dell’epoca, Alina Marazzi racconta le solitudini e le ragioni di queste donne che tentano di ricostruire una loro identità, di dare un nome alle loro inquietudini: l’accostamento delle immagini segue di volta in volta sia la narrazione delle testimonianze che le libere associazioni mentali a cui danno sfogo. Senza alcuna retorica o acredine rivendicativa, la conclusione a cui giunge l’autrice è espressa ad un certo punto nel documentario con la frase “dal Settantasette gli uomini e le donne escono entrambi sconfitti”. Il movimento femminista ha sì dato il via a tutta quella serie di atti legislativi che hanno portato ad un riconoscimento paritario della dignità delle donne laciandole, però, anche sole in un mondo che non ha spazio per la “poesia delle rose” e che spesso dimentica il desiderio e il loro bisogno di essere amate.

One Reply to “60esimo Festival del Film di Locarno”

  1. m‘è venuta voglia di vedere il film di Hopkins, sembra un po’ toccare alcuni temi presenti anche in Mullholland Drive, e cioè la critica ironica e feroce contro l’industria del cinema e l’alternanza affascinante ma dolorosa tra sogno e realtà (tra parentesi il secondo tema, personale, pare scaturire dalle frustrazioni ricollegate al primo, più contestuale. Ed è significativo che nel film Lynch inverta la causa con l’effetto).
    Qual‘è il film che hai preferito, tra quelli visti a Locarno?

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