Quando Tom Hansen, interpretato da un delizioso e mai sdolcinato Joseph Gordon Levitt, rivolgendosi alla mdp si dice perdutamente innamorato dell’incantevole Sole Finn elencandone ogni particolare, dal modo di dormire al suono della risata, siamo assolutamente convinti di credere con lui che quella sia la ragazza giusta e che abbia finalmente trovato la felicità.La regia di Marc Webb enfatizza questo momento estatico concentrandosi, come una lente d’ingrandimento, sul volto delicato della splendida Zooey Deschanel, alimentando l’(auto)illusione di Tom e di chiunque nel pubblico abbia vissuto almeno una volta quella stagione acerba ed entusiasmante dell’amore. Ma in un altro momento di quei 500 giorni (l’”insieme” del titolo italiano è il solito fuori luogo dei titoli nostrani perché il tempo è quello della percezione soggetiva di Tom e non della relazione con Sole che se ne va e torna più volte) sempre Tom, sempre rivolgendosi alla mdp, parla con rabbia delle stesse caratteristiche che lo avevano esaltato nella fase acuta dell’innamoramento come insoppartabili difetti, il volto della Deschanel, anche questo rimasto invariato, ci appare ora come cambiato, con un qualcosa di fastidioso ed irritante, come se il nostro modo di vedere Sole si modificasse a seconda dell’emozione negativa o positiva con cui Tom dà un senso al soggetto del suo desiderio.
La riuscita di 500 days of Summer si manifesta a partire da un presupposto: far saltare fin dall’inizio la struttura classica della storia di un incontro e di un abbandono, non tanto per il gioco dell’andirivieni temporale all’interno dei 500 giorni, interpretati o come dei brevi haiku che variano per contenuto e tempo a seconda delle sfumature umorali o psicologiche del protagonista oppure come gli schizzi disegnati dall’aspirante architetto Tom sulla sua città ideale, quanto perché rimane costantemente sintonizzato su un piano di empatia nei confronti del suo ordinario eroe, evitando le trappole dell’indulgenza e del vittimismo e il giudizio moralistico verso il comportamento di Sole, che conserva la sua personale integrità di ragazza libera, schietta e moderna. La storia non ha la pretesa di diventare una metafora esistenziale, ed il piacere, con un retrogusto ironicamente vendicativo come annuncia la dedica iniziale del regista sceneggiatore ad una sua ex, sta tutto nella messa in scena del caso di questo paranoico romantico, nel coglierne ogni sbalzo d’umore, ogni soprassalto d’orgoglio maschile, gli entusiasmi, le rabbie e l’amara consapevolezza di un’educazione sentimentale che corregge in una chiave pop (nel senso glorioso degli anni ‘80, non quello becero e meramente mercantile degli anni duemila) la lettura di Gustav Flaubert e la visione inevitabile della Nouvelle Vague, più Rohmer che Truffaut.
Il film possiede questa doppia anima colta e popolare, questo sembrare una commedia sentimentale e rivelarsi un piccolo film d’autore, annunciando un apparente happy end per poi contraddirlo nel finale con una conclusione che non è né lieta né drammatica, ma apre semplicemente ad una rosa di possibilità e al rischio della scelta contro la vita prostrata all’ideale romantico, e trasmette un piacere e una leggerezza nel fare cinema completamente sconosciuta alle costruite e pedanti commedie mainstream, quel tipo di film con Kate Hudson o Katherine Heigl tanto per intenderci, dove il trionfo dello star-system celebra il funerale dell’immaginazione e della libertà. Ci resterà sempre più simpatica questa Summer con le sue reticenze, il suo rivendicare il diritto di volersi divertire senza coinvolgimento non ponendo questa per forza come una scelta di vita alternativa, salvo poi ricredersi quando sentirà di aver incontrato la persona giusta e augurando lo stesso al “suo” Tom in uno dei congedi più teneri e delicati addii visti al cinema, dove si ha l’aria di assistere ad un inizio diverso e non ad una fine senza speranza. Senza speranza sono quei matrimoni con prole annessa in cui rimangono incastrate le protagoniste dei vari 27 volte in bianco o La dura verità, solo che lì ci fanno credere che quella sia la più perfetta felicità.
Qui l’andamento dinoccolato e l’esperssioni keatoniane dell’irresistibile Gordon-Levitt, che ricordavamo struggente marchettaro per Greg Araki in Mysterious Skin, non ci portano in nessun luogo consolatorio o illusorio, ma anzi ci liberano dall’intontimento delle frasi fatte di un bigliettino d’auguri.