L’inizio di Les Cowboys di Thomas Bidegain, selezionato quest’anno alla Quinzaine des Réalisateurs, é suggestivo: una cinepresa fluida e vibrante s’insinua in un ampio spazio in cui è in corso una festa all’aperto. Un prato, un lago, bandiere americane che ondeggiano colorate su uno spiazzo; la gente ride, scherza, si abbraccia. Grossi cappelli da cow boy ornano le teste, pantaloni di cuoio, stivali e foulard colorati completano la mise degli astanti. Un uomo alto e robusto, Alain (Francois Damiens), sorride allegramente ad un’adolescente dai lunghi capelli biondi, sua figlia Kelly, mentre cerca di fissarle un fazzoletto rosso intorno al collo, a pochi passi la moglie, una donna giovane, piena di grinta e un ragazzino di una decina d’anni, Kid, osservano la scena con affetto. L’eccitazione e l’euforia della gente è palpabile; nell’aria risuonano le note un brano di musica country.
Non siamo negli Stati Uniti, ma nella campagna francese; quello che vediamo é un raduno “cowboy-country” come ce ne sono tanti in provincia. Alain, il padre, è uno dei pilastri di questa piccola comunità: alla richiesta di tutti sale sul palco e canta, poi, sotto lo sguardo commosso di sua moglie e di Kid, danza un walzer con sua figlia Kelly tenendola teneramente fra le braccia.
Poco dopo Kelly scompare. Siamo nel 1994.
Sedotti dalla carica emotiva di quest’inizio in sordina ci apprestiamo a seguire il seguito della storia con trepidazione. Dov’è Kelly? Cos’è successo? Ha avuto un incidente? E stata rapita?
La vicenda prende una piega inattesa: fra le sue cose, infatti, i genitori trovano dei quaderni e dei libri d’arabo. Poco dopo Alain scopre che Kelly è fuggita con un ragazzo magrebino del luogo, Ahmad, il figlio di un meccanico stabilito da anni in Francia.
Kelly aveva una doppia vita di cui nessuno era al corrente.
Les Cowboys – esordio alla regia di Thomas Bidegain, sceneggiatore eminente che ha scritto, fra l’altro, Un profeta, Sapore di ruggine e ossae Dheepan con Jacques Audiard, così come pure A perdre la raison di Joachim Lafosse e Saint Laurent di Bertrand Bonello- ci invita ad una lunga, estenuante cavalcata narrativa, per sentieri non tanto selvaggi quanto pericolosamente ambigui.
L’intenzione di fondere una tormentata cronaca famigliare con la storia mondiale di questi ultimi vent’anni in un unico, grande affresco politico-sociale s’ingolfa nei meandri di una vicenda inverosimile, offrendoci una visione manicheistica – per non dire reazionaria- della realtà che ci vuole descrivere.
Con il senno di poi, Bidegain immagina nel passato – un palese anacronismo – la storia di una ragazzina vittima dell’indottrinamento dell’ islam radicale. La scomparsa di Kelly gli offre lo spunto per creare una grande avventura romanzesca, spettacolare ed insidiosamente schematica. Le motivazioni della ragazza, così come pure le sue, eventuali, attività clandestine sono costantemente lasciate nel vago; non verremo mai a sapere se è fuggita cercando un modello di vita alternativo a quello della società occidentale cristiano-capitalista in cui è cresciuta o se ha abbracciato una forma radicale di Jihad .
Bidegain rimette a noi spettatori il compito d’immaginare, per meri accenni ed allusioni, la sorte di Kelly, non manca però di creare un nesso fra l’eroina -invisibile- della vicenda e i grandi attentati terroristici di Al Quaida, le cui notizie punteggiano ad hoc la trama che si estende dalla metà degli anni novanta fino quasi ai giorni nostri.
Seguendo le traccie di Sentieri selvaggi di John Ford – modello al quale il regista ha spiegato di essersi direttamente ispirato- Les Cowboys si perde nel cammino fra la Francia profonda e l’Afganistan, stabilendo un’equazione altamente equivoca fra i ‘buoni’ ed i ‘cattivi’ di ieri e di oggi.
La prima parte del film è dedicata alla ricerca di Kelly da parte di suo padre. Alain, indossa in pieno il ruolo del cowboy, e parte in solitario. La polizia cerca di calmarlo, gli consiglia di aspettare, anche la moglie sembra essere molto più paziente e serena di lui, ma non c’è niente da fare. D’ora in avanti l’unico scopo della sua vita sarà quello di ritrovare la figlia. Aggressivo e collerico, l’uomo si lancia a rotta di collo su ogni possibile pista. Un primo viaggio lo porta in una città vicina in cui inizia ad osservare la comunità araba del luogo cercando di cogliere un segno, un indizio. Impietosito nel vederlo dormire in macchina al freddo un immigrato magrebino lo invita a bere un the nello scantinato in cui abita; vuole aiutarlo, confortarlo e fargli vedere le condizioni in cui è costretto a vivere. La reazione di Alain è violenta: di lui e dei suoi simili non gliene importa un bel niente! Il personaggio di Alain, per il quale lo spettatore dovrebbe provare dell’empatia, è un uomo tutto d’un pezzo; autoritario, sciovinista e razzista.
Col passare del tempo diventa completamente ossessivo; la sua famiglia si sgretola mentre lui continua a seguire ogni eventuale pista e non esita ad arrivare perfino nello Jemen per cercare sua figlia.
Un’elissi ci permette di ritrovare Alain qualche anno dopo; Kid (Finnegan Oldfield) è ormai maggiorenne e lo accompagna nelle sua missioni. Ma la ricerca ostinata dell’uomo si scontra con un muro, Kelly non vuole essere trovata; la ragazza lo chiede esplicitamente nelle lettere che invia sporadicamente alla madre. A sua volta madre di una bimba che ha avuto con Ahmad, Kelly si chiama ormai Aafia e ha definitivamente cambiato vita.
Tenuto all’oscuro di questi sviluppi Alain morirà in un incidente d’auto, in un ultimo, disperato tentativo di rintracciare sua figlia.
Nella seconda parte del film sarà Kid – erede della missione paterna – a lanciarsi sulle orme della sorella. Lo ritroviamo in Afganistan, membro di un ONG. Un oscuro uomo d’affari americano, interpretato da JC Reilly, convince Kid ad accompagnarlo in una missione segreta, offrendogli in cambio delle informazioni su Kelly.
Da questo punto in poi la storia diventa definitivamente rocambolesca: riconoscendo fra gli interlocutori dell’americano, Ahmad, il marito di sua sorella, Kid lo insegue fin dentro il suo appartamento. Sorpreso da Ahmad, Kid spara per legittima difesa e lo uccide scoprendo subito dopo che la donna velata che vive con lui, non è sua sorella, ma la seconda moglie di Ahmad. Kid e la vedova, sui quali pesa ormai la pena capitale, vengono salvati in extremis dai servizi segreti francesi.
L’epilogo della storia si svolge in Francia: per Kid, di ritorno a casa, la vita riprende il suo corso come se niente fosse. La donna che si è portato dietro viene accolta con affetto ed benevolenza da sua madre e dal suo entourage; tutti sembrano vivere insieme felici e contenti.
Bidegain mette in scena- senza esserne consapevole- la doppia morale agghiacciante di una società che rifiuta radicalmente l’alterità ma è pronta, di tanto in tanto, a fare delle concessioni per mettersi la coscienza a posto. Così, con un’ovvietà indiscutibile, qualche tempo dopo Kid sposerà la donna di cui ha ucciso il marito.
In modo altrettanto ovvio e naturale qualche anno dopo Kid e sua moglie – che nel frattempo hanno un bambino di tre anni- riceveranno nel loro meraviglioso giardino bagnato di sole la visita del vecchio meccanico, il padre di Ahmad, al quale mai nessuno ha raccontato la verità.
Nel film l’innocenza di Kid non viene mai contestata: in un universo in bianco e nero, come ce lo descrive Bidegain in Les cowboys, i buoni stanno da una parte ed i cattivi dall’altra; i primi hanno sempre ragione ed i secondi sempre torto. Preso dalla smania di sviluppare fino in fondo un’idea preconcetta di sceneggiatura, Bidegain focalizza la sua attenzione esclusivamente sui due personaggi maschili del film: padre e figlio, lasciando completamente nell’ombra i personaggi secondari, le loro motivazioni, il loro profilo psicologico.
Les cowboys è un film sull’assenza, ma quest’assenza permea anche, purtroppo, il punto di vista del regista che, si diletta ad abbordare come mera materia narrativa, in modo sommario e superficiale, un nodo di problemi cruciali che toccano molto profondamente – basti pensare agli attentati di gennaio scorso a Parigi – la società civile francese in questo momento. Certamente il film è stato scritto prima dei fatti qui sopra citati; Bidegain ha spiegato al pubblico della Quinzaine di avere lavorato durante quattro anni alla sceneggiatura ma ha risposto con un no secco a chi gli ha domandato se avesse mai parlato con delle famiglie che hanno vissuto realmente quest’esperienza, per correggersi subito dopo dicendo di avere letto varie testimonianze sul tema…
Les Cowboys ci lascia indubbiamente un gusto amaro.