Per chi non è mai stato ad Istanbul, il percorso in macchina dall’aeroporto di Sabiha Gokçen, nella parte asiatica della città, verso Taksim, il centro storico situato in Europa, può essere un’esperienza sconcertante: chilometri e chilometri di cantieri, da cui sorgono gruppi di edifici giganteschi -ancora in via di costruzione o appena terminati -fanno pensare molto di più ad una metropoli come New York che ad una città dalla tradizione millenaria come Costantinopoli.
Distesa sulle due sponde del Bosforo, popolata da una moltitudine di etnie diverse, erede di una storia venerabile, ma energicamente protesa verso il futuro, Istanbul è una metropoli piena di contrasti. All’immagine vivace e complessa della città che lo ospita, l’Istanbul Film Festival (IFF) è un festival appassionante, avventuroso, politicamente impegnato e combattivo; una festa popolare di grande portata ed il luogo ideale per scoprire una delle cinematografie nazionali più sorprendenti e promettenti di questi ultimi anni.
L’IFF rappresenta risolutamente il volto laico, progressista e critico del paese; é un evento dal carattere forte come lo sguardo di donna, acuto ed inquisitore, che ci scruta dal poster del festival ideato da Nuri Bilge Ceylan.
Pur aprendosi al mondo l’IFF ha mantenuto un suo carattere locale ben definito. Senza cedere all’ambizione della mondializzazione festivaliera impiega uno staff agguerrito di giovani critici turchi, istituisce collaborazioni con le università e mette in atto uno scambio vitale con un altro importante fattore culturale della città: la Biennale d’arte di Istanbul.
Investendo, con luoghi di proiezione ed eventi, i quattro angoli delle città, l’IFF si fa portatore di un’idea di cinema attenta all’evoluzione estetica, interessata alle sue forme storiche e sensibile al suo valore come medio capace di toccare i problemi del nostro tempo testimoniando, denunciando, e puntando il dito su quanto può e deve cambiare.
Gli spostamenti da una location all’altra sono un’ottima maniera per prendere la misura di questa città in piena trasformazione urbanistica. Le due sale principali si trovano sull’Istiklal, la principale arteria commerciale di Istanbul, piena zeppa di gente fino a notte tarda; un altro cinema è situato nel quartiere residenziale di Nişantaşı, per accedere a questa la sala – all’interno di un centro commerciale di lusso- bisogna passare sotto ad uno scanner come negli aeroporti. Il cinema Feriye è situato nell’elegante borgo di Ortaköy sulla sponda del Bosforo ma, a causa dei cantieri, il tragitto può durare più di un’ora; per raggiungere invece il Rexx situato in Asia, fuori dai circuiti turistici, bisogna prendere un battello.
Di fatto questa è una situazione relativamente nuova; privato, a causa di un nuovo progetto immobiliare, della sua sede storica, l’Emek movie theatre – sala mitica e luogo di memorie cinematografiche per almeno tre generazioni – il festival si è visto costretto a cercare delle soluzioni di ripiego; ma il problema della speculazione edilizia resta e costituisce una minaccia costante e più che tangibile.
In questo contesto l’Emek è diventato un vero e proprio simbolo di resistenza: un’ennesima manifestazione organizzata il 7 di aprile scorso lungo l’Istiklal fino all’edificio del cinema, già completamente ricoperto di impalcature ma non ancora demolito, ha visto sfilare la direttrice del festival Azize Tan con il suo team al completo nonché molti ospiti della manifestazione fra cui i registi Marco Bechis, Jan Olef Gerster e Costa Gavras che avrebbe dovuto tenere una masterclass nel pomeriggio stesso. La manifestazione, svoltasi pacificamente, é stata dissolta alla fine dalla polizia con getti d’acqua e lacrimogeni.
Realtà e finzione si sono ricongiunte quando, cercando riparo in un caffè mi sono trovata faccia a faccia con Costa Gavras, mentre fuori si stavano svolgendo delle scene molto simili a quelle del suo mitico film “Z”. Riuscito finalmente ad arrivare nella sala della conferenza il regista ha poi dichiarato: “ Resistere è molto importante, ho sempre cercato di mostrare delle persone che resistono nei miei film”.
Oltre all’attivismo – inedito per un festival di questa taglia e di questa portata – l’IFF ha consacrato a questa problematica una sessione di riflessione teorica; “Sono un cittadino? Barbarismo, rinnovamento civico e città” esplorando il ruolo dei cineasti nel proporre alternative possibili al dilagare del neoliberalismo.
Lo spirito engagé del festival è chiaramente leggibile anche nella scelta di dedicare una delle sue tre sezioni competitive ai diritti umani nel cinema. Quest’aspetto, senza dubbio, distintivo e specifico dell’IFF non esaurisce certamente il grande ventaglio della manifestazione che presenta ben 256 pellicole provenienti dal mondo intero. Il programma è articolato in una serie di sezioni tematiche: Concorso internazionale, Concorso nazionale, Dal mondo dei festival, Nuove visioni, Maestri, Zona minata, Documentari, Dalla letteratura allo schermo, Follia di mezzanotte, Antidepressivo, Menu per bambini e Storie di donne.
Accanto a quest’offerta, il festival si riallaccia alla ricca tradizione del cinema turco proponendo un attesissimo programma incentrato sulla produzione attuale: Turkish cinema 2012-2013 e rivisitando dei classici come My prostitute love di Lüfti Ö. Akad, un grande melodramma popolare del 1968, interamente restaurato e mostrato in presenza dei suoi protagonisti: Türkan Şoray e Izzet Günay.
Altrettanto stimolante è il ciclo dedicato alla memoria del regista Metin Erksan. Considerato come il primo vero e proprio “auteur” nella storia del cinema turco, pensatore prima ancora che cineasta, Erksan – vincitore della Berlinale con Dry Summer nel 1964 – ha lasciato con la sua opera radicale e rigorosa, una forte impronta sul cinema nazionale; prova tangibile ne sono i cinque rari mediometraggi programmati dall’IFF.
Tre registi di fama mondiale erano ospiti del festival; oltre a Costa Gavras, Peter Weir, presidente della giuria del concorso internazionale e Carlos Reygadas, al quale il festival ha dedicato una retrospettiva integrale. Nel corso di un’affollatissima conferenza, Peter Weir ha simpaticamente ripercorso tutta la sua carriera, raccontando una miriade di aneddoti; passando dalla sua infanzia nell’Australia del dopoguerra, al suo primo viaggio in Europa su un transatlantico dove scopre la sua passione per la performance, per proseguire con gli inizi, quasi fortuiti, del suo tragitto di cineasta, fino ai retroscena delle sue famose pellicole.
Intensa e palpitante, la masterclass di Carlos Reygadas, ci ha invece offerto uno sguardo profondo sul processo creativo del regista. Reygadas ha lungamente parlato del suo metodo di lavoro, della sua visione estetica e del suo modo di intendere il cinema.
Sedici giorni carichi di emozioni e di visioni stimolanti si sono conclusi con una cerimonia di premiazione all’unisono con lo spirito della manifestazione. In un ambiente gaio di comizio festoso – slogan scanditi a più riprese ed una marea di manifesti pro-Emek dominavano la sala – sono stati annunciati i vincitori degli ambiti Tulipani d’Oro.
What Richard did di Malcom Campbell, adattamento di un racconto
di Kevin Powell, è stato consacrato vincitore del concorso internazionale. Con uno stile sobrio ed accurato, Campbell mette in scena un sottile dramma psicologico seguendo le orme di un ragazzo irlandese dell’upper class che ha tutte le carte in regola per riuscire nella vita ma finisce per distruggere, su un colpo di testa, il suo avvenire e la vita di tutti coloro che gli stanno intorno. L’ottima performance di Jack Reynor nel ruolo di Richard ed una sceneggiatura capace di captare nei minimi dettagli i moti d’animo più segreti del protagonista con gelida precisione ci trascinano in una torbida zona d’ombra, sollevando dei laceranti dilemmi d’ordine morale.
Sorprendente, sconcertante e profondamente inquietante Thou gild’s the even di Onur Ünlü, si è imposto come vincitore del Tulipano d’oro del concorso nazionale; un premio coraggioso per una pellicola difficile e molto personale che esce completamente dai terreni battuti.
Thou gild’s the even è una parabola crudele e spietata sul senso o piuttosto sul non–senso dell’esistenza umana. Dominato dal volto, a prima vista bonario ed inoffensivo, del suo protagonista, il film ci invita nella vita quotidiana di una piccola cittadina di provincia dall’apparenza tranquilla ed ordinaria. Girato in un luminosissimo bianco e nero il film è assolutamente idiosincratico tanto rispetto alla messa in scena quanto rispetto alla sceneggiatura. Il tono leggero e lievemente comico dell’inizio si trasforma gradualmente in melodramma culminando alla fine in una tragedia apocalittica; il terreno rassicurante della vita di tutti i giorni scivola lievemente verso una dimensione fantastica sboccando in un universo malvagiamente assurdo su cui incombe, costante, la minaccia morbosa della morte.
Nichilismo, autodistruzione ed una malinconia struggente emanano da questa vicenda che esplora – fra satira sociale ed incubo gore- le frange dolenti dell’anima umana.
La giuria ha spiegato, in off ,di avere voluto premiare l’originalità di un’opera completamente contro-corrente rispetto allo stile neo-realista che domina il cinema turco d’autore di questi ultimi anni. Una scommessa riuscita: Thou gild’s the even è un film scomodo, disperatamente diverso, che merita tutta la nostra attenzione.
Foto di Maria Giovanna Vagenas