di Fabrizio Funtò/ “Il mezzo è il messaggio”, soleva ripetere Marshall McLuhan. Qualcosa del genere è accaduto in questo film per alcuni versi geniale e per altri sperimentale. Già perché la storia è semplice-semplice, così esile da essere quasi inesistente e, tutto sommato, poco importante nell’economia generale del racconto.
È presto detta: due caporali dell’esercito inglese in terra di Francia in quel lontano 1917 durante la prima guerra mondiale, devono raggiungere un altro reparto inglese avanzato qualche miglio più avanti per impedire che lanci un attacco contro i tedeschi. I due devono portare un contrordine al solito colonnello scriteriato e guerrafondaio che si sta per gettare in una trappola. Per farlo devono attraversare una terra di nessuno, dove succederà di tutto. Finito.
Uno dei due, Blake, ha il fratello nel reparto che sta per attaccare. Quindi ha una motivazione in più per raggiungerlo a tutti i costi. L’altro, Shonfield, è solo un suo amico. Entrambi sono due persone miti e un po’ impacciate, a disagio con la guerra. Si direbbe due uomini senza qualità.
Dove sta allora il genio dei Lumiere in questo film sostenuto dalla Dreamworks, con un regista da urlo come Sam Mendes (Skyfall) che si è scritto la sceneggiatura su un racconto di suo nonno? Con le musiche — scusate se è poco —di Thomas Newmann? Ed un sacco di pluripremiati nella crew?
L’idea che mette tutto sottosopra è quella di girare il film come se fosse un unico, lungo, interminabile e totale piano sequenza. Non ci sono le macchine da presa, ma c’è “LA” macchina da presa: una. Non c’è campo e controcampo, non c’è carrellata e stacco, ma c’è un solo occhio a guardare, raccontare e perfino ad inchiodare la scena.
Naturalmente non è andata così, durante le riprese. Tagli e montaggi ci sono e non potrebbero non esserci. Ma è esattamente così nell’idea, ed esattamente così nella realizzazione e nella percezione dello spettatore. Curioso. Non sempre piacevole. Anche bizzarro. Frastornante ed esaltante. Ma l’idea è giusta. Forse ancora un po’ più giusta di quanto Mendes non supponga.
Perché se è vero che la troupe ha dovuto continuamente inventarsi trucchi per mantenere la continuità della sequenza ad onta di giri, giravolte, turn around e via dicendo, per compartecipare dell’idea narrativa che i due protagonisti della storia non possano più tornare indietro, pena la morte di 1601 dei loro commilitoni (l’uno essendo il fratello di Blake) — ed ecco che la scelta stilistica della sola camera diventa la narrazione stessa, il messaggio stesso secondo McLuhan — è vero anche un altro fatto.
L’occhio della camera è il terzo occhio, il terzo compagno di viaggio: siamo noi. E questa immedesimazione e sospensione della realtà, che abbandoniamo volentieri per immergerci nel racconto cinematografico, ci coinvolge, tende tutti i nostri sensi, ci fa partecipare con loro: quasi tendiamo loro una mano per aiutarli.
E, se non lo facciamo, e lasciamo che gli eventi casuali gli si catenino loro addosso, quasi ci sentiamo colpevoli di alto tradimento.
Il pensiero ritorna necessariamente al finale di “Professione Reporter” di Michelangelo Antonioni, quando la camera parte dall’esterno della casa, sul piazzale dove giunge la macchina dei killer, li incontra mentre si avvicinano, li segue quando entrano e negli interni, accarezza Jack Nicholson disteso sul suo letto nel quale, di li a poco, giacerà morto, e poi esce magicamente dalla finestra della stanza dell’omicidio passando magicamente attraverso una robusta grata che la protegge, in un unico piano sequenza che è scolpito nella storia del cinema.
Ciò che avviene ai due caporali nella terra di nessuno — come dicevo — non è così importante. È il tragico stillicidio di un “nowhere” dove ci si scanna e ci si aiuta casualmente, dove si muore e si vive casualmente. C’è chi vi vedrebbe volentieri una metafora dell’oggi, ma a mio modesto giudizio no, non mi convince.
Invece il finale denota e conclude un’architettura di pensiero, una struttura del racconto meditata, pensata e ragionata a lungo. Avvicinandosi al finale, mi sono chiesto come diamine il regista avrebbe concluso una storia-non storia del genere. E credo la soluzione sia venuta per accostamento geometrico: simmetria pura.
E siccome il racconto si apre con i due caporali che dormono in un campo di fiori, la chiusura che ritorna su se stessa lascia presumere che — tutto sommato — la vita sia solo un sogno. Ma nel 1917 quei sogni, in terra di Francia squassata dal primo conflitto globale, non potevano che essere incubi.