di Simone Rossi/Pablo & Pablo. Come Poesia & Politica. La “p” al Potere; ovvero tutto quello che conta nel biopic che non è un biopic di Larrain. E come potrebbe esserlo, se chi racconta la storia della fuga del “più famoso comunista del mondo” è un autore dallo sguardo visionario e dalle sghembe impennate grotesque. Rigoroso, certo, ma nella misura in cui il proprio rigore ha una funzione liberatoria, consentendo al racconto di librarsi oltre i confini dell’inquadratura e spingersi più in là, verso un obiettivo che è quasi sempre una sfida all’intelligenza dello spettatore, al suo desiderio di essere interrogato e quindi provocato. E’ bello Neruda (nel fisico, così grande, prorompente, e nella voce, che è cantilena d’amore e libertà); ed è bello, bellissimo, il poliziotto che gli dà la caccia, che deve acchiapparlo per conto di un Cile senza più amore nè libertà. Il gioco di Larrain è innanzitutto verbale, come se prima degli uomini e della loro carne venissero i pensieri – la voce di quei pensieri – e la loro irripetibile possibilità di muoversi nello spazio e nel tempo, di dialogare in cento luoghi fisici differenti nello stesso momento. E’ il Canto General, il poema che il prefetto Oscar legge mentre dà la caccia e che contestualmente migra nelle bocche degli uomini e delle donne, a muovere, prima ancora dei passi di poliziotto e fuggiasco, le coscienze.

E’ il suo teorema appassionato a misurare le distanze tra quello che dovrebbe essere – la Vita – e quello che è. Per questo il Neruda di Larrain – e Luis Gnecco – è così onestamente reale: in lui, nella sua smodata grandezza, è sempre orgogliosamente sbandierato il tono basso, quello viscerale, meno poetico (decisamente meno poetico), più rozzo. Neruda ci racconta una verità assoluta che è inscritta nella propria storia di uomo – e qui il regista è appunto, storicamente rigorosissimo -: quelle stesse contraddizioni che l’arte cancella per innalzare gli spiriti e riscattare le anime, restano ineliminabili, sono organiche alla società, parlano il tecnicismo dei burocrati e della bassa politica delle minzioni impellenti (guardare la meravigliosa sequenza d’apertura per credere): Pablo ha sostenuto Videla, gli ha dedicato un poema; il poeta odia Videla, il poeta ha commesso un errore. Ma quel Canto General ha pure una terza declinazione: non solo poesia, non solo militanza, ma anche, e soprattutto natura (mondo). Il canto è un inno ad un Paese intero, alle sue strade, alle sue case e ai suoi bordelli, ai suoi giardini e ai boschi, alla cordigliera che come un’onda sempre sul punto di infrangersi, trova infine la propria serena pace (inevitabilmente) altrove, fuori dai propri confini, lungo la piana infinita della pampa argentina. L’identità del Paese che soffre ha una sola grande voce che è incontrollabile e incoercibile perché riecheggia nella testa di ciascuno: nessun personaggio secondario, l’utopia pretende questo, ognuno artefice, ognuno responsabile, ognuno Neruda.

L’uomo comune è affacciato al balcone dell’hotel e fuma placidamente nella notte, all’improvviso violenti colpi di clacson incendiano l’aria: è il poeta che sbeffeggia l’idea ridicola del dittatore rinchiuso nel palazzo.

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