Esiste ancora un cinema che riesce a esercitare uno sguardo candido sulla realtà, capace di inquadrare gli uomini e le cose come se vi posasse gli occhi per la prima volta. È in sala in questi giorni e si chiama In grazia di Dio, e racconta di quattro donne impegnate a cambiare di segno al corso del destino. La quarantenne Adele, insieme alla sorella Maria Concetta, alla figlia adolescente Ina e all’anziana mamma Salvatrice, in seguito alla chiusura della piccola fabbrica a conduzione familiare messa in ginocchio dalla crisi, è costretta a lasciare la casa di Leuca (Lecce) e a ritirarsi in campagna, dove la famiglia possiede una masseria da risistemare e un piccolo pezzo di terra. Gli uomini sono lontani: il terzo fratello, Vito, è partito per la Svizzera in cerca di fortuna, il padre di Ina, lo spregiudicato Crocifisso, è in carcere per un traffico illecito. Inizialmente le quattro donne, a eccezione di Salvatrice, soffrono come un’imposizione la nuova vita da contadine, le tensioni tra loro si tramutano in aperti conflitti. Pian piano però la terra comincia a dare frutti, che divengono risorse per acquistare i beni necessari alla sussistenza, e la masseria assume le sembianze di una casa. Intanto i rapporti tra Adele, Maria Concetta, Ina e Salvatrice vanno evolvendo.
La «lezione» di Edoardo Winspeare (non spocchiosa, né cattedratica, fortunatamente involontaria) è che si può parlare dell’oggi, dell’oggi più stringente – la crisi degli anni Duemila, lo sfaldamento della famiglia – smarcandosi dalla sociologia e dalla politica che vincolano la riflessione (lo sguardo) ad automatismi incapaci di restituire la complessità dell’umano. La breve saga di Adele e della sua famiglia, detta su carta, ha il sapore dell’esempio: la decrescita come via responsabile e «umana» per sfuggire al morso della recessione. Sullo schermo però le dinamiche materiali ed emotive sono rappresentate con fluidità assoluta, così che la puntualità dello sfondo storico sfuma presto per fornire alla vicenda i contorni dell’universale. La chiave è ovviamente il rapporto che i personaggi stringono con il luogo in cui vivono, ed è questo che a Winspeare (e a noi con lui) interessa prima di tutto: il posto in cui poter stare, per gli esseri umani, in grazia di Dio.
Sin da Pizzicata (1996), passando per Sangue vivo e Il miracolo, il regista di Depressa (paesino di mille anime nei pressi di Tricase, Lecce) si è mostrato interessato, ma sarebbe meglio dire votato, alla rappresentazione della terra, delle radici. E la terra, attraverso i suoi occhi, non è semplicemente contemplazione del creato, bensì punto di partenza per un’incessante indagine emozionale avente per oggetto l’influenza – non necessariamente positiva – e la potenza dell’arcaico nelle nostre vite.
Questa forza primitiva risiede nella terra: è lei che connette il nostro vissuto individuale al tutto, lasciando emergere la muta persistenza che il nostro passato storicizzato esercita sul presente. Non si tratta dunque di una regressiva ritirata dal vivere in società, Winspeare ci dice anzi che la via per la pacificazione mette in gioco tutti i grandi conflitti dell’Uomo: il visibile e l’invisibile, la materia e lo spirito, la terra e il cielo.
Se il punto di vista del film è certamente quello di Adele, a stagliarsi su tutti poco a poco è tuttavia la figura di Salvatrice, che appunto la terra incarna. Nella parte iniziale, ambientata nel triste paese dalla piazza vuota e grigia, ci appare spenta; ma a partire dal trasferimento in campagna l’anziana donna letteralmente fiorisce, prende tono, colore, luce nuova e vitale. La sua quieta saggezza (pietra su pietra si alza un muro) rinsalda legami. Ma a sbalordire è soprattutto la sua incredibile disponibilità a innamorarsi, senza traumi né scandali, in una concezione per cui l’amore tra gli uomini, se si è in grazia di Dio, è nelle cose; è, appunto, una disponibilità all’Altro simile in tutto alla disponibilità che la terra, se curata, dimostra alla fecondità (perciò è straordinaria la sequenza della dichiarazione in mezzo ai campi, incontro raro di realismo e poesia). È in lei un’apertura totale alla vita che – ribadiamo – smentisce qualsiasi lettura conservatrice.
Impiego esclusivo di attori non professionisti (Celeste Casciaro, che interpreta Adele, nella realtà è la moglie di Winspeare; Anna Boccadamo, che dà vita a Salvatrice, di professione fa la cuoca), uso misurato della colonna musicale, luci per lo più naturali, largo uso del pianosequenza, netta prevalenza del dialetto salentino rispetto all’italiano: sono i punti fermi di In grazia di Dio e in generale dell’approccio filmico di Winspeare, gli strumenti con cui insegue la verità attraverso le immagini. Il suo candore. Ma non c’è nessuna tentazione neo-neorealista nel suo cinema, il cui referente, più che la cronaca, è semmai il mito. I tempi del suo film sono dilatati, come a voler incastonare le vite dei personaggi dentro un disegno più grande, dentro un tempo che non si esaurisce né comincia con quello del film. I volti di Salvatrice, di Crocifisso e degli altri sembrano essere lì da sempre, c’era solo da andarli a inquadrare. Il modello, se ce n’è uno, potrebbe essere un La terra trema spostato in ambito contadino.
Il cinema italiano, da decenni recluso per scelta o per necessità nei suoi interni di dolorose ristrettezze o fatui ripiegamenti televisivi (fatte salve le dovute eccezioni!), ritrova qui il paesaggio, quello (splendido) salentino degli ulivi a perdita d’occhio, la cui parata di verde digrada improvvisamente nell’azzurro del mare oltre il dirupo. Basta, semplicemente, sollevare la camera.