Esiste una natura fisica, concreta, tangibile del desiderio e l’immagine cinematografica ha dimostrato di possedere la capacità di restituire questa dimensione oltre la superficie bidimensionale dello schermo, andando a toccare e in alcuni casi a risvegliare pulsioni profonde, in collegamento con l’immaginario che ognuno di noi, spettatore ed essere umano, ha alimentato attraverso il proprio personale, irripetibile desiderio. C’è un romanzo giovanile di Patricia Highsmith, l’acclamata giallista statunitense, alla base di Carol, con cui Todd Haynes realizza una sorta di melò gemello e doppio rispetto a Lontano dal paradiso, con al centro sempre una storia d’amore “scandalosa” per la puritana e repressiva società statunitense degli anni ‘50 (tra una signora borghese ed un afroamericano in Far from heaven, tra due donne in questo Carol, dove la Highsmith rievoca una sua esperienza di gioventù). Ora, l’associazione tra la Highsmith ed Hitchcock viene spontanea visto che L’altro uomo, una delle opere più inquietanti e morbose del cineasta britannico, maestro sì del brivido ma anche del desiderio, aveva come soggetto proprio un romanzo della scrittrice che, come la sua controparte cinematografica, ha sempre intrecciato tra di loro i fili rossi della passione e della morte. Come diceva anche Truffaut, nei film di Hitchcock la scena di un omicidio spesso è introdotta da una scena di seduzione, una vera e proprio iconografia pop del concetto classico di Eros e Thanatos, in cui sempre di più l’ambiguità dell’immagine e la sua capacità di artificio e manipolazione o distorsione creano uno scarto in chi guarda, un disorientamento, una vertigine restando sempre nell’ambito delle citazioni hitchcockiane.
Parlando di Carol, non ci troviamo di fronte a quello che potremmo definire un thriller nel senso stretto del termine, non c’è nessun delitto e nessun mistero da risolvere; eppure, la tensione erotica sotterranea e il non detto che attraversa da subito, dal primo sguardo, l’incontro tra le due protagoniste sembra avere come motore propulsore lo stesso che faceva scatenare i meccanismi patologici dei personaggi hitchcokiani: Passione, desiderio, attrazione, parole che come una malia e un’ossessione invadono, riempiono, si impossessano delle immagini di Todd Haynes, della storia tra Carol e Therese, dei corpi e dei volti di Cate Blanchett e di Rooney Mara: la prima sempre più dotata di quel fascino divistico senza tempo che ormai l’ha resa un’icona un po’ appesantita dalle vestigia e dalla maschera di una cultura glamour e assai patinata, su cui Haynes esegue un sapiente e progressivo lavoro di desaturazione nel ricondurla ad uno stato di dolenza e di silenzio, distante dai manierismi recitavi a briglia sciolta della Blue Jasmine di Woody Allen; la seconda, un misto davvero post moderno di carisma dark e innocenza, inquieto bisogno di essere in un altrove dello spazio, del tempo e dei sentimenti e necessità di essere nel presente, in contatto, un volto su cui è impressa tutta la storia passata, presente e futura di donne la cui necessità di riconoscere e chiedere il loro posto nel mondo è più forte di qualsiasi parola e a volte si ripiega in un gesto trattenuto o in uno sguardo sfuggente.
Ma Passione, desiderio ed attrazione sono anche le parole che, come le immagini di Carol, hanno invaso la mia mente e che continuano a sgorgare ora, mentre sto scrivendo, come a visualizzare attraverso il verbo una sorta di trinità blasfema e carnale del peccato originario cinematografico: e sento che il piacere in parte anche compiaciuto che ho provato nel mordere questo frutto proibito che non posso che immaginare, un po’ romanticamente, ancora fatto di celluloide e dunque di materia infiammabile, sta nel contrappunto della ricostruzione della perfetta superficie del design e dello stile degli anni ’50, rispetto al potere rivoluzionario e ardente delle passioni che faticano a contenersi, con Cate/Carol e Rooney/Therese che, ancor prima di un’esplicita scena sessuale (inevitabile e incontestabile dopo aver accumulato tanta tensione), si divorano con la bocca, gli occhi, le mani, lasciando mirabilmente cadere come un fruscio sullo sfondo la formalità, seppur intonata malinconicamente, dei dialoghi. E il momento precedente a quello in cui Carol dice “I love you” a Therese è percorso da un brivido in cui potremmo aspettarci un bacio appassionato o un violento omicidio, se non fosse la forma cinematografica combaciante con la formalità di quell’epoca e di quella società a lasciare tutto in sospensione e a indicarci che il Desiderio è il non luogo per eccellenza.
Non ci sono vittime o carnefici tra Carol e Therese, non c’è un crudele gioco al massacro o una forma di coercizione della più giovane sulla più vecchia o viceversa… Da questo punto di vista Carol è un melò bianco, neutro, morbido, con una inedita e tenera disponibilità delle due donne a perdonarsi, ascoltarsi, capirsi, offrirsi un’altra possibilità, pur mantenendo le viscere ed il cuore fermamente ancorati alla furia vitale delle tre erinni (Desiderio, Passione, Attrazione) e dei percorsi misteriosi che ci fanno dotti dell’ alfabeto per riconoscere e dare un nome ai nostri sentimenti, quello a cui una cultura tecnocrate, nozionistica e razionale non ci ha educato, come diceva Erland Josephson in Scene da un matrimonio.
Ecco, Carol è un film che mi ha spinto a riacquistare una confidenza con le parole che rivelano il desiderio e che galleggiano sulla superficie del finestrino di una macchina, di notte, tra le luci della città che confondono, stordiscono e sovrappongono le icone di donne eleganti, impeccabili, piene di grazia e sensualità.
Proprio dalla notte mi viene in aiuto, pensando al volto sperduto e al tempo stesso pulsante curiosità di Rooney Mara, l’immagine di un’altra macchina notturna che si inerpica nei meandri delle emozioni profonde e destabilizzanti, con un altro volto che ne è equivalente specchio e incarnazione: la prima indimenticabile apparizione di Naomi Watts in Mullholand Drive, film di David Lynch che è forse il nostro viaggio senza ritorno e la città della nostra destinazione finale per quanto riguarda il Desiderio e la voragine dentro cui ci si può perdere.
Un giorno spero di sognare Therese e Carol dentro al Club Silencio, vicino alla Betty e alla Rita di Mullholland Drive, che ascoltano abbracciate, piangendo, quel canto che si fa voce dell’umanità
Llorando por tu amor…
Bel pezzo. Davvero complimenti.
Quando il vortice ti prende da dentro, allora sì che vale la pena di scrivere. Per immagini.
Non vedo l’ora di leggerti di nuovo. Così: intenso e coinvolto.