La memoria dell’acqua di Patricio Guzmán ha festeggiato la sua première alla Berlinale nel prestigioso Concorso Internazionale, fatto assai raro per un documentario. Una scelta di programmazione giusta e coraggiosa che ha incontrato il favore del pubblico e dei professionisti.
Quest’opera complessa in cui poesia, discorso politico, analisi storica, riflessione filosofica e confessione personale si fondono in un unico anelito vitale, ha sedotto la giuria del Festival vincendo l’Orso d’Argento per la migliore sceneggiatura.
Mite e gentile di primo acchito, Patricio Guzmán è un uomo dal temperamento combattivo, franco e diretto quando è necessario, come ha dimostrato nel corso di un vivace scambio di idee con la stampa internazionale dopo la prima del suo film alla Berlinale.
Nel suo film precedente, Nostalgia della luce, lei si è spinto fino ai deserti dell’estremo nord del Cile, mentre per La memoria dell’acqua ha deciso di sondare la costa e l’oceano della Patagonia, al sud. Cos’ha motivato questa sua scelta?
Questa è una domanda interessante ma è anche una domanda difficile per me. Bisogna sapere che in Cile la maggior parte della popolazione vive in quello che è il centro geografico del paese, l’estremo nord e l’estremo sud sono invece scarsamente popolati.
Al nord del Cile vivono degli astronomi che dal loro osservatorio scrutano l’universo per esplorarne il passato, c’è una miriade di miniere abbandonate, vi si trovano pure delle mummie e dei resti di dinosauri. Al nord possiamo ugualmente imbatterci in gruppi di donne che scavano nella terra del deserto per cercare i resti dei loro cari, ‘scomparsi’ durante la dittatura di Pinochet. Tutto in questa regione ci rimanda al passato; è precisamente per questo che ho scelto di ambientare il mio precedente film – Nostalgia della luce– nelle zone aride e desertiche del nord.
Il Sud del Cile, la Patagonia dove ho girato questo film, invece, m’interessava perché è completamente circondato dall’acqua. L’acqua è un elemento primordiale per la vita; l’acqua si trova sulla superficie della nostra Terra e al suo interno è presente nel sistema solare e in galassie lontane… Se il deserto, in un certo qual modo, ci rinvia al passato, l’acqua per me è un inno alla vita e al futuro. Ė stato proprio il mio desiderio di incontrare la vita che mi ha spinto fino alla Patagonia, una regione assolutamente meravigliosa.
Come ha trovato i suoi straordinari personaggi e come ha organizzato la costruzione della sceneggiatura?
Trovare i personaggi del proprio film è fondamentale e richiede un grande lavoro di ricerca preliminare alle riprese; per questo film mi sono valso dell’aiuto prezioso del mio assistente. Una volta trovati i personaggi giusti s’inizia a girare ma non si sa mai quale sarà il risultato finale.
Penso che l’essenza di un documentario sia fatta di “atomi” per così dire; bisogna riuscire a trovare quegli elementi, quelle particelle essenziali capaci di nutrire un film. Se, per esempio, qualcuno lascia cadere una macchina da presa sul fondo di una sala questo piccolo incidente inatteso risveglia la nostra curiosità. Cosa è successo, ci domandiamo, perché qualcuno si è lasciato scivolare via una macchina da presa e via di seguito. Questi piccoli accidenti fortuiti possono fornire del materiale narrativo, dare una svolta insospettata ed è proprio questo che cerchiamo facendo un documentario.
Noi documentaristi cerchiamo questi “atomi” drammatici dappertutto; questi atomi sono come le lettere dell’alfabeto con cui comporre delle parole e in seguito delle frasi. Questo è tutto il segreto del documentario: riuscire a percepire questi piccoli “atomi” preziosi celati nella vita di tutti i giorni.
Una scatola piena di vecchie fotografie, per esempio, può essere un atomo drammatico.
Ripeto, non sappiamo mai come andrà a finire, se quanto stiamo facendo sia valido, interessante o no; è proprio per questo grande fattore d’incertezza che l’industria cinematografica e i produttori sono molto cauti e restii nei nostri confronti, e hanno perfettamente ragione! Noi però continuiamo a fare questo lavoro perché è appassionante e mille volte più interessante che girare un film d’avventura per adolescenti a Hollywood… Noi documentaristi ci rivolgiamo a un altro tipo di pubblico, un pubblico adulto nel pieno senso del termine, un pubblico pensante.
Una donna intervistata nel film dice di non sentirsi cilena, perché?
La donna alla quale lei fa riferimento appartiene all’etnia Kaweskar. I Kaweskar sono un’etnia quasi ormai completamente estinta che viveva nel sud del Cile, in Patagonia. Giustamente lei non si sente Cilena, lo stesso accade anche con gli indiani Mapuche che vivono al nord del Cile. Credo che noi cileni abbiano ucciso molti più indios in Cile che i conquistadores spagnoli. Il Cile è un paese pieno di massacri non detti perché la sua storia è sempre stata scritta dai “vincitori”. Al giorno d’oggi, per la prima volta, siamo finalmente consapevoli di vivere in una repubblica democratica dove ci sono degli storici disposti a ristabilire la verità dei fatti e a raccontare i crimini compiuti da una parte del popolo Cileno.
In Cile hanno avuto luogo centinaia di massacri recenti – mi riferisco qui soprattutto allo sterminio delle popolazioni autoctone – che non vengono menzionati né a scuola, né più tardi al liceo o all’università. In questo senso l’immagine del Cile è, direi, un mito pieno di zone d’ombra; ora è venuto definitivamente il momento di chiarirle, una volta per tutte!
Nel film vediamo molte foto d’archivio che ritraggono i popoli nativi della Patagonia, potrebbe parlarcene più dettagliatamente?
Nel film ho utilizzato circa un centinaio di foto d’archivio. Senza queste fotografie, non c’è dubbio, non avrei mai potuto fare questo film. La maggior parte delle foto utilizzate in La memoria dell’acqua sono le foto di Martin Gusinde, un gesuita austriaco che aveva lavorato in Patagonia come missionario dal 1918 al 1924. Gusinde aveva scattato più di 1.000 fotografie, ritraendo la cultura Selknam. La maggior parte di queste foto sono conservate oggi in un museo d’antropologia in Germania, l’istituto Anthropos.
Ci sono alcune altre fotografie scattate da altri fotografi dalla stessa epoca. Se non fosse stato per questi uomini che hanno ritratto con grande talento e precisione le etnie Selknam e Kaweskar, le loro fattezze e l’arte raffinata con cui dipingevano i loro corpi sarebbero andate perse e dimenticate per sempre.
Purtroppo, qualche anno più tardi, sono arrivati dei nuovi missionari importando virus e batteri ignoti in quelle regioni che hanno contaminato le popolazioni indigene, causandone la morte in breve tempo.
Una fotografa cilena, Paz Erràzuris, ha scattato recentemente delle foto meravigliose degli ultimi indios, sopravvissuti alle malattie e ai massacri.
Qual è, secondo lei, l’importanza del documentario come strumento di salvaguardia della coscienza storica di un paese?
In America Latina i documentaristi dovrebbero sempre andare in giro con una piccola cinepresa e filmare tutto ciò che vedono. Siamo un continente senza immagini. Tutte le immagini che abbiamo sono molto recenti, moderne direi, non sappiamo quasi nulla del diciannovesimo secolo, quando non c’era ancora nessuna possibilità di captare e documentare la realtà che ci circonda, come possiamo fare oggi. Credo sia essenziale filmare tutto, perché qualsiasi cosa può servire in seguito; una storia si può costruire sempre in un secondo tempo, in fase di montaggio.
Il cinema è l’arte del montaggio!
Bisogna evitare a tutti i costi di fare dei documentari dimostrativi, con una voce in off che spiega tutto. Non c’è nessun bisogno di dare delle istruzioni alla gente, per convincerla e commuoverla l’unica via possibile è quella della poesia. Bisogna riuscire a raccontare qualcosa d’interessante in un documentario per risvegliare la curiosità degli spettatori.
La cosa peggiore che possa accadere ad un documentarista è di sentire un complimento del tipo: “Il tuo film è molto bello, non sembra proprio un documentario!” (ride) Ė con questa negazione che il nostro lavoro viene lodato.
L’immagine deve parlare per se stessa. Bisogna poter costruire delle situazioni con le nostre risorse e con i mezzi che mette a nostra disposizione il montaggio; bisogna riuscire a mettere insieme tutti gli “atomi” di cui parlavo prima, per riuscire a raccontare una storia.
Qual è la situazione del documentario in America Latina rispetto alle televisioni locali?
“Un paese senza documentari è come una famiglia senza album di fotografie!”. Questa frase, che non smetto di ripetere, mi sembra profondamente vera. In Cile abbiamo ancora molta strada da fare per arrivare a mettere insieme un album di fotografie che possa rappresentare la storia del paese nel suo insieme. Io ho fatto pochi film nella mia vita, penso che siano quattordici in tutto, ma potrei anche sbagliarmi… Sono molto lento nel fare un film, ne giro in media uno ogni sei anni. Di tutti questi film che trattano della memoria del mio paese, parlano di Allende, di oppressione e di lotte popolari nessuno – dico bene – nessuno è stato finanziato dal governo cileno e nessuno è passato intelevisione, e non penso che passerà in un futuro prossimo.
L’unico film in tutta la mia carriera per il quale ho ottenuto un finanziamento statale cileno è stato proprio quest’ultimo: La memoria dell’acqua. L’unico film che sia mai passato alla televisione cilena è stato il mio film precedente, Nostalgia della luce, ma lo hanno trasmesso all’una e mezza del mattino e hanno pure invertito l’ordine di proiezione delle bobine. Penso che quest’episodio la dica assai lunga… La televisione cilena è una vera vergogna! In linea di principio non sarebbe male perché dispone di buone qualità tecniche, gli attori e i presentatori sono di bella prestanza, ma è completamente commerciale; non ha un “atomo” di cultura. Per me questo è uno scandalo. La televisione è stata creata per essere uno strumento d’informazione, ma anche d’istruzione, purtroppo in Cile – e non solo in Cile – è, come dicevo, puramente commerciale.
Esiste qualche televisione d’eccezione come Canal 12 e Canal 22 in Messico, Canal Cultural in Brasile e Canal Encuentro in Argentina ma questi esempi sono come granelli di sabbia persi in mezzo a tutti quei mostri atroci governati da interessi economici e nazionali. L’America Latina detiene probabilmente il record delle televisioni, le meno adattate alla realtà di un continente in cui la classe media colta è in continua espansione. In America Latina ci sono almeno dieci buone università in ogni paese; c’è molta gente istruita e informata. La televisione invece è ancora preistorica, non può essere.
Il suono è un elemento particolarmente importante nel suo documentario. Potrebbe parlarcene?
Il suono è in effetti un elemento essenziale del mio lavoro. Per me, che ho iniziato a fare i miei primi film nella metà degli anni sessanta, è meraviglioso sapere che oggi abbiamo a nostra disposizione un suono stereofonico. A quell’epoca la qualità del suono era patetica; il suono era piatto, orribile, impercettibile. Il bianco e nero associato a questo tipo di suono era per me un vero martirio… Per fortuna oggi con una piccola macchina da presa si arriva ad ottenere un’ottima qualità sonora. Bisogna approfittarne. Ad ogni passo mi rendo conto di quanto siano importanti tutti questi strumenti tecnici di cui non disponevamo in passato. Oggi chiunque potrebbe, in linea di principio, girare un film con una di queste piccole cineprese, se non fosse che, per fare un film, bisogna pur sempre avere qualcosa da dire e bisogna saperlo raccontare.
Devo ammettere di non amare molto la tecnica; forse è proprio per questo che mi piace tanto fare dei documentari, bastano due o tre tecnici e la cosa è fatta! (ride)
A mio avviso l’equipe di un documentario non deve essere superare le cinque persone, cioè tante quante possono viaggiare in una sola macchina. Se c’è una seconda macchina, sicuramente si perde; quando dopo una mezz’ora ti giri per vederla, non c’è già più, poi cerchi di telefonare ma la connessione non funziona più e via dicendo… un vero disastro! (ride)
Quali consigli darebbe ad un giovane documentarista?
Penso che per fare dei documentari ci vogliano in primo luogo delle idee, delle storie da raccontare, poi ci vuole poesia, forza di persuasione e non una voce in off che spieghi tutto. Per anni il documentario è stato visto soprattutto come uno strumento pedagogico; bisogna finalmente abbandonare la pedagogia per entrare nel mondo della poesia, della suggestione, del discorso indiretto o del silenzio. La battaglia del Cile che è il mio film più importante, e anche uno dei più vecchi, non vale tanto per quello che dice ma soprattutto per il modo in cui lo dice. Non si tratta di riprendere degli schemi narrativi Hollywoodiani ma bisogna pur sempre che l’azione segua un crescendo, che la linea narrativa non venga mai interrotta da pause o flash back inutili, solo così si riesce a mantenere vivo l’interesse degli spettatori. Non c’è niente da dire e niente da dimostrare, bisogna semplicemente mostrare e avere la capacità di convincere lo spettatore, invitandolo a entrare nel film ampliando i confini del genere e trasformandolo in un qualcosa di più universale. A me piace molto dare classi di documentario; direi che mi piace tanto quanto fare dei film! Trasmettere la mia esperienza ad altri è un’attività che mi riempie d’entusiasmo. Nelle scuole di cinema in America Latina, purtroppo, i bravi insegnanti di documentario sono rari, la maggior parte di loro continua a ripetere delle formule arcaiche che risalgono agli anni cinquanta. Vengono ancora insegnati dei teorici inglesi e americani ormai obsoleti. Bisogna ripartire da zero perché non solo la tecnologia ma anche il linguaggio cinematografico li hanno ormai completamente superati.
Finanziare un documentario è difficile?
Trovare dei finanziamenti per un documentario è sempre difficile; per potere iniziare questo progetto abbiamo dovuto investire tutti i soldi che avevamo guadagnato con il documentario precedente, Nostalgia della luce, per andare una prima volta in Patagonia. Io non ero mai stato in Patagonia, come avrei potuto fare un film su questa regione senza averci mai messo piede prima? Noi documentaristi siamo mal messi; non abbiamo un sindacato degno di questo nome e non abbiamo diritto né ad una pensione, né assicurazioni di alcun tipo. Come dicevo, insegnare mi piace molto ma mi aiuta anche a guadagnare anche un po’ di soldi, perché con il documentario – diciamo con il documentario “classico” – non si guadagna nulla. Nessun documentarista è mai diventato milionario, a meno che non faccia, per esempio, dei documentari sul volo degli uccelli. Ma questo è un tipo di documentario completamente diverso da quelli che faccio io…
Il punto di vista di un regista sul suo lavoro é sempre appassionante, sopratutto poi quando si tratta di qualcuno del calibro di Guzman.
Bella intervista, complimenti!