Dal 2002 al 2013, per quattro giorni all’anno, ogni anno, Richard Linklater ha riunito una stessa troupe per mettere in scena «a puntate» la vita dai 5 ai 18 anni di Mason, di sua sorella Sam e dei loro genitori separati; lungo queste quaranta giornate di lavorazione spalmate in undici anni, il gruppo essenziale degli interpreti, costituito dal nucleo familiare del protagonista, è rimasto rigorosamente invariato.
E’ questa la premessa storica di Boyhood, ormai arcinota ma imprescindibile per avviare qualsiasi discorso che lo riguardi. Perché dà immediatamente il senso di un esperimento dalle implicazioni fortissime, che mette in gioco mille questioni sul realismo al cinema e solleva altrettante domande e curiosità sulla sua realizzazione. Se ogni film, per dirla con Godard, è innanzitutto un documentario sui corpi degli attori che lo interpretano, Boyhood eleva l’assunto all’ennesima potenza, ponendosi come la più radicale (fino a prova contraria) documentazione del lavoro del Tempo (sull’Uomo) che sia stata proposta al cinema.
Nel corso degli anni, la vita finzionale di Mason/Ellar e delle persone che gli sono vicine viene registrata dalla camera di Linklater attraverso una serie di episodi scelti, soprattutto nella prima parte, non necessariamente per la loro pregnanza: Mason va alla partita con papà, una notte è a campeggiare con gli amici, un altro giorno subisce il bullismo dei compagni di scuola. Frammenti di vita ordinari, a volte banali, disciolti dentro un flusso continuo grazie a un montaggio di meditata discrezione, che evita programmaticamente dissolvenze e cesure nette al pari di didascalie e contestualizzazioni: da una scena all’altra è passato un anno, e a svelarcelo è solo il nuovo colore di capelli della sorella del protagonista (interpretata dalla figlia di Linklater, Lorelei) o una ruga in più sul volto di mamma/Patricia Arquette. Allo spettatore il compito di colmare i buchi, di portare avanti a piacimento pezzi di storia.
Linklater non gioca con il tempo, non lo soggioga alla sua autori(ali)tà (di sceneggiatore, di regista) piegando la storia ad esigenze dimostrative o cullando l’utopia di fermare la vita in momenti iper-significanti: «è l’attimo che coglie noi e non viceversa», e così il regista lascia che le cose accadano, sta lì a filmare, come in attesa. Eppure nemmeno si può dire che si limiti a testimoniare il flusso. Il tempo, le modificazioni che questo apporta alla vita, entrano nel film direttamente al livello della sua ideazione e realizzazione, come un elemento di scrittura, autoriale. Se è certo infatti che Linklater avesse in partenza una certa idea della traiettoria esistenziale di Mason, è fatale che la vita di Ellar abbia in corso d’opera determinato quella traiettoria profondamente. Regista e attore protagonista riferiscono di un contatto costante nei periodi dell’anno in cui non il film non veniva girato e del rito della telefonata, al principio di ognuno degli undici anni di lavorazione, con la quale il secondo aggiornava l’altro sugli avvenimenti della propria vita, che venivano poi assorbiti nella sceneggiatura in progress.
Ma anche senza questo aneddoto (e altri possibili), questa verità della relazione che diventa cinema la si intuisce semplicemente guardando il film, constatando il pudore con cui Linklater filma Ellar e la fluidità e la spontaneità con cui questi (che in futuro forse farà l’attore, o forse no) schiva ogni tentazione recitativa, aderisce allo sguardo del regista. La vita e il cinema si erano mai avvicinati tanto?
Lo spettacolo hollywoodiano, l’idea del film come lo conosciamo, di progetto che ottimizza tempo e risorse per ridurre al limite i rischi e ottenere la massima resa, è spazzata via dall’impresa produttiva di Linklater, che assume proprio il rischio, la dissipazione e infine il destino (e se Ellar a un certo punto si fosse rifiutato di continuare?) a ragione ultima della propria opera. Anche in questo, Boyhood forza i limiti del cinema, guarda oltre. Eppure mai lo nega o sminuisce; consapevole che è proprio la possibilità tecnica di riproduzione fotografica offerta dal mezzo (sarà un caso che Linklater abbia girato tutto in pellicola?), la possibilità stessa di filmare (e di filmare con l’entusiasmo che immagineremmo in un pioniere del cinema), che consente a Boyhood di proiettarsi oltre lo schermo, di slanciarsi nel mondo.
Che poi non si tratti solo di un esperimento, di un virtuosismo, diviene chiaro guardando il film pian piano, a partire forse dalla metà, quando ne emerge il cuore profondo. Impercettibilmente, con il passare del tempo, nei frammenti della vita del protagonista selezionati da Linklater, quei frammenti che prima si erano detti non necessariamente pregnanti, comincia a fare capolino un nucleo forte di umanità inquieta che addensa l’esperienza del vivere di Mason. Il carattere che nell’adolescenza si era mimetizzato si va ora definendo. Il ragazzino silenzioso che amava starsene a contemplare il mondo attraverso la finestra, accelera il percorso di maturazione verso la propria linea d’ombra e arriva a porsi la domanda per eccellenza, spietata e meravigliosa: So, what’s the point?
Il tempo aveva fin lì lavorato silenziosamente su di noi, ora la domanda ci desta e ci fa presagire la necessità della cesura imminente. Boyhood è un film-grembo che nutre dentro di sé il suo protagonista, e noi con lui, fino all’imbocco dell’età adulta, quando è tempo di lasciarlo andare. Lì il film finisce, lascia spazio alla vita. In noi, all’immensa malinconia di un tempo perduto.
Triste, scialbo pur se dignitosamente interpretato, un film che non si ricorda, nemmeno a sforzarsi un po’. La giovinezza ‘in progress’ ricostruita scorre sulla pelle del protagonista, senza lasciare segni esteriori nè interiori. Forse il trionfo della semplicità, segreto della vera atarassica pace felice. Di molto più potente la situazione affidata da Sorrentino all’attore di Brucio nel vento di Soldini, che popola un’amplissima esedra di foto giornopergiorno, con i segni che sì, si vedono, anche da giovani, mesepermese annoperanno; segni di vita e di grande bellezza.