Rispondi a: CAMILLE CLAUDEL TRA STORIA, PSICOLOGIA E SIMBOLI

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ALESSIA – Penso che il film sia partito da una condizione specifica, e molto politica, per parlarci, più in generale, della difficoltà di entrare in relazione con l’altro. Qui l’altro per me è quello che il pensiero razionale chiama il minorato, il malato mentale, il degente quando si parla il linguaggio “democratico” della medicalizzazione. In questo senso anche Camille, che è stata rifiutata dalla morale, dalla sessualità e dalla religione dominanti, non riesce a non rifiutare, a sua volta, e anche come altra sovrastruttura, ossia l’arte, i cosiddetti malati mentali. È il volto dell’altro, l’altro radicale come quello di chi non ha sovrastrutture e ideologie né, di più, una soggettività fondata sulla coscienza, che ci restituisce tutta l’impossibilità di comprenderlo secondo categorie e pre-giudizi. E poi anche il sacro come volto nudo che ci restituisce tutta la fragilità e l’interdizione alla violenza (come anche in Bergman e Bresson e Dreyer). Il martirio (ma non in parte consolatorio come in Dreyer) è l’ennesima sublimazione con cui rifiutare la differenza, ossia rifiutare l’irriducibilità tutta umana dell’altro che, diversamente, annullerebbe la nostra narcisistica aspirazione-difesa verso l'”assoluto” che non fa altro che riprodurre l’onnipotenza (impotenza) dell’unicita’.
Bergman parlava del volto come silenzio di Dio, cioè, forse, come accettazione umana, non soltanto razionale, dei limiti, del dolore, della vita che grida nonostante tutto è che ha necessità di una muta, di una moltitudine, che la possa ascoltare e aiutare a far divenire altro, di più, da sé, dal sé ferito, dal sé narcisistico, dal sé solo