Questa volta, anche se a malincuore, dobbiamo ammettere che il colpaccio proprio non è riuscito a Baz Luhrmann. Il registra australiano che ci aveva strabiliato con Romeo e Juliet prima, e soprattutto con Moulin Rouge dopo, divenuto un vero e proprio cult, si lancia stavolta in un’operazione con fin troppe pretese. Il risultato è un “polpettone” scontato, costituito da una miriade di tasselli, che, a differenza dei precedenti film, non si compongono armonicamente come in un puzzle, ma schizzano in mille direzioni dando vita a un film spezzettato, dai molteplici volti dove troppa è la carne messa a fuoco, e non sempre di grande qualità.

La storia prende avvio nel 1939 alla vigilia della guerra: Lady Sarah Ashley, nobildonna inglese, vola in Australia dove da tempo il marito si è trasferito per vendere una proprietà terriera. La realtà australiana le si presenta come un mondo completamente sconosciuto e difficile, fatto di contaminazione culturale e allo stesso tempo chiusure e pregiudizi, dove la natura, sconfinata e incontaminata, si scontra con gli intrighi e le rivalità tra i proprietari terrieri. Lady Ashley, col suo snobismo e le sue mossettine aristocratiche, sarà costretta ben presto a scontrarsi con questa nuova realtà quando il marito verrà ucciso e lei si affiderà ad un mandriano rozzo (Hugh Jackman), ma di buoni sentimenti, per salvare la sua proprietà. Il rapporto tra i due, ostile e difficile, diventa ben presto, com’è ovvio, attrazione irresistibile; durante il percorso che dalla proprietà li condurrà nella città di Darwin, un bambino meticcio, rimasto orfano, verrà amorevolmente preso in affidamento da lady Ashley e i tre con la loro unione sfideranno le rigide convenzioni dell’epoca. A far da sfondo il bombardamento della città di Darwin da parte dei giapponesi, che già avevano attaccato Pearl Harbor.

  Annunciato come il primo vero kolossal australiano, a cominciare dal regista e dai due attori protagonisti Nicole Kidman (ormai sua musa) e Hugh Jackman, Australia strizza l’occhio a Via col vento per poi virare verso il più recente Pearl Harbor. Alcuni guizzi – a tratti  visionari – della regia di Lurhmann, soprattutto nella prima parte, non bastano tuttavia a risollevare le sorti di un film la cui storia rimane sempre privata e non si fa mai paradigmatica di un intero popolo. I tre personaggi principali compiono un “viaggio” che non è solo fisico e che li trasformerà in persone nuove, ma è la “loro” storia non la storia dell’Australia, melò più che dramma epico. Il significato, ad esempio, della “terra”, che in Via col vento diventava valore fondativo di un’intera nazione, radice primigenia a cui ritornare e da cui ripartire per la creazione di un nuovo mondo,  qui non è altro che merce di scambio e di interessi economici. E la guerra, che irrompe improvvisamente in tutta la sua violenza distruttiva, è solo un espediente narrativo, sottofondo delle “gesta” dei due protagonisti, risultando pertanto un elemento aggiunto che non diventa mai tessuto connettivo della storia. Il film appare diviso in due parti distinte, e l’unico collante sembra essere quell’Over the rainbow del mago di Oz che ci dice instancabilmente che there’s no place like home, nessun luogo è più bello della propria casa. E la casa è proprio quella terra australiana, che Baz Luhrmann ci mostra con campi lunghissimi e movimenti bizzarri della macchina da presa, coerentemente col suo stile di regia, e che rimane l’elemento più interessante del film. Il tocco del regista lo ritroviamo anche in quel senso del magico, mutuato dalla cultura aborigena, che irrompe sorprendentemente e consente al regista di sfumare e rendere brillanti cose e persone, ma è troppo poco in un’opera che avrebbe dovuto rappresentare il suo capolavoro e che ci appare, purtroppo, un’impalcatura troppo fragile per trasformarsi in epopea.

Tra cinquant’anni si parlerà ancora di Via col vento, di Australia dubitiamo si possa dire altrettanto.

 

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