Dietro i candelabri è in programmazione al Detour di Roma: MERCOLEDì 19 marzo 2014, ore 16.30 – 20.45 /GIOVEDì 20 marzo ore 16.00 – 20.45/VENERDì 21 marzo ore 17.30/DOMENICA 23 marzo ore 20.30

I premi cinematografici, specialmente quelli distribuiti da un’industria potente e organizzata come quella hollywoodiana, a parte la loro valenza di grande circo in cui si ritrovano a sfilare sotto un tendone addobbato di luce e paillettes i volti protagonisti della passata stagione, possono offrire a volte spunti di riflessione interessanti per comprendere quale momento storico e culturale quell’industria sta vivendo.

Scorrendo i nomi dei vincitori dei Golden Globe assegnati la scorsa domenica notte a Los Angeles, una delle cose che salta all’occhio di questo riconoscimento articolato in moltissime categorie (con la divisione tra “dramma” e “commedia”, secondo criteri spesso opinabili, sia per il cinema che per la televisione), è la presenza tra i premiati nella sezione Best Tv movie di Dietro i candelabri, un film che ha tutto il respiro sia produttivo sia estetico e narrativo di un lungometraggio per il cinema, dove in effetti noi europei abbiamo avuto la possibilità di vederlo. Negli Stati Uniti invece è stato proiettato solo sul piccolo schermo nonostante la regia di Steven Soderbergh, un cineasta capace di coniugare il suo estro autoriale e la capacità di venire incontro con intelligenza alle esigenze dell’industria, e nonostante la presenza di un divo acclamato della penultima generazione come Matt Damon e di una star ormai leggendaria appartenente alla stirpe regale di Hollywood: quel Michael Douglas, figlio di Kirk, che vede la sua stella ridursi nella categoria “Miglior attore di un tv movie”. Chi sostiene, e sono in molti, che in quest’epoca di ultimi fuochi del post moderno è ormai la televisione, almeno quella statunitense, ad aver assunto la funzione di medium privilegiato dentro cui transitano le opere più interessanti, complesse e sconvolgenti realizzate con il linguaggio audiovisivo, non avvertirebbe certo come “riduttivo” l’aver valutato Dietro i candelabri il migliore dei film realizzati per la tv, dove il livello della competizione è diventato più alto rispetto a quello dei lungometraggi cinematografici.

Avendolo visto sul grande schermo, devo ammettere, forse un po’ romanticamente, che non avrei potuto immaginare altro luogo in cui poterlo incontrare o, meglio, precipitarci dentro. Essere dapprima rapito e sedotto, e poi successivamente rimanere infastidito, disturbato e quasi avvilito, con un dolceamaro sentimento di compassione e di pietas nel finale, dalla storia “Bigger Than Life” di Liberace. Liberace, all’anagrafe Wladziu Valentino Liberacemusicista, pianista, entertainment adorato e quasi idolatrato tra gli anni ’50 e gli anni ’80 dalla stessa Hollywood (intesa come “system”, più che come luogo fisico), che ora ne ha celebrato il trionfo in un biopic scintillante e colorato quanto amaro ed impietoso, poichè Soderberg passa dalla fascinazione per l’aspetto formale e per la messa in scena, alla rappresentazione di una vita e il suo contrario, per arrivare, quindi, attraverso lo spogliamento progressivo, fino al suo nocciolo duro, scarno, feroce. Questa contraddizione è intrinseca nel racconto dell’esistenza di Liberace, almeno secondo quanto è riportato nelle memorie del suo ultimo amante, accompagnatore, tuttofare Scott Thorson, che oltre a rivelarne l’ovvia omosessualità, velata agli occhi del pubblico conservatore dei suoi spettacoli e dei suoi show televisivi, ne delinea, e ben più pesantemente, una psicologia di manipolatore, egoista, esaltato, un uomo narcisisticamente e ossessivamente perso dentro il proprio universo di case, oggetti, macchine, costumi, trucchi e parrucchini, in un’ipertrofia di materia e di superfici luccicanti dove ci si smarrisce con facilità e si soffoca lentamente stritolati dalla chimera del desiderio e dalla smania del possesso.


Ma come ricordavamo, trattandosi di Soderbergh, un cineasta che fin da quel folgorante e disturbante esordio, Sesso,bugie e videotape, dove coniugava la pratica dell’home movie casalingo con la natura scopica e voyeuristica del desiderio in un’atmosfera da commedia borghese dei sobborghi, ha improntato il suo sguardo su un rapporto dialettico tra racconto e messa in scena, contraddizioni e ambiguità non si limitano ad essere lette solo sulla partitura della narrazione, piuttosto esse vengono espresse  da un regia che si pone in maniera interlocutoria nei confronti di una materia vibrante e pulsante, oltre la patina del fard e del cerone da avanspettacolo. Il corpo, ad esempio, che Liberace, nella rappresentazione di se stesso, aveva sempre occultato e censurato sotto quei costumi ridondanti ed eccessivi -un’espansione, un prolungamento del peggior cattivo gusto del carrozzone dello showbiz anche se comunque alludente, e proprio nelle sue forme eccessive, a una forma di lussuria e compiacimento-, si prende prepotentemente lo spazio che aveva probabilmente occupato nell’intimità del pianista di origini italo-polacche: i primissimi piani ravvicinati dei volti di DouglasLiberace e DamonThorson, il loro mostrarli nudi, avvolti da un tensione erotica e anche sentimentale, offre l’oppurtunità a Soderbergh  tanto di far vedere il desiderio bruciante e a tratti compulsivo sotto la cera sciolta delle candele, quanto di esplicitare la relazione tra la capacità seduttiva di un mondo artefatto, opulento, illusorio (la dimora di Liberace come espressione di un ego esasperato da un sistema che prdouce e consuma miti ed icone) e  l’irresistibile, trascinante forza dell’attrazione fisica e del desiderio carnale come equivalenti forme di (auto)inganno: per Liberace l’apparentemente soddisfacimento di una voracità che gli permette di conservare l’immagine pubblica di asessuato e fanciullesco menestrello; per Scott, cresciuto sradicato tra famiglie affidatarie e precarietà esistenziale, l’illusione naif, nutrita al fondo da un disperato, autentico senso di privazione, di costruirsi un’identità tout court, seppur passivamente subita e plasmata su quella del suo amantepigmalione.

Ed è probabilmente questa l’ambiguità fondamentale sui cui Soderbergh costruisce tutta l’architettura della storia di Scott e Liberace finendo per renderla una riflessione che si estende al suo modo di fare cinema, alla ricerca un’identità, di una propria specificità nel labirintico percorso non solo tra generi cinematografici ma anche tra sistemi produttivi diversi, servendosi delle condizioni all’interno di un determinato sistema per generare codici estetici e narrativi sempre nuovi. Da questo punto di vista Soderbergh mette in atto il processo di come Liberace plasma, con il potere del corpo e della materia, l’acerbo Scott agendo un inganno che si duplica nel momento in cui al ruolo di amante viene sovrapposto anche quello di figlio (la terrificante scena della plastica facciale a cui il povero Thorson  è stato realmente sottoposto per assomigliare di più al “padre” adottivo). E qui, in un certo senso, la regia sembra aderire “mimeticamente” all’aspetto formale del “Liberace Style” restituendo un’ossessione per il dettaglio e il particolare maniacale quanto quella dello stesso Liberace.

Eppure questa mimesi, andando a togliere gli strati che ci separano dal nocciolo, nel movimento che Sodenbergh compie avvicinando il suo occhio sempre più dentro la materia, va lentamente a sfilacciarsi, ad allentarsi inesorabilmente fino a mostrare il meccanismo dell’ingranaggio che si inceppa e si ripiega su stesso. Scott infatti non diventerà né il “figliol prodigo” né il “principe azzurro”, bensì prima un tossicomane nevrotico e rancorso, vittima di un gioco di potere e piacere di un uomo ormai al crepuscolo, dopo un piccolo, anonimo borghese ingabbiato nell’alternativo cattivo gusto di un appartamento minimalista e di un lavoro da impiegato; Liberace, dal suo canto, descritto come un vizioso carnefice e manipolatore, pagherà il contrappasso paradossale della sua spensierata promiscuità ammalandosi di AIDS e implorando ingenuamente il suo Scott, ritrovato sul letto di morte, di non ricordarlo come una vecchia checca vittima della malattia con cui veniva identificata, nei prevenuti e spaventati anni ottanta, l’identità omosessuale.

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L’operazione continua di costruzione e de-costruzione della trama, la sensazione di stare dentro e fuori una storia cosi emblematica di cocci rotti e stelle di latta dello show business, insinua un pensiero inquietante che, almeno in chi scrive, sembra prendere tre possibili percorsi interrogativi: quanto il nostro immaginario possa essere generato, nutrito e condizionato da una Fabbrica che pensa di poter produrre anche i sogni; come e in quale misura ci sentiamo lusingati e compiaciuti dall’essere sedotti in maniera sfacciata, reiterata e continuativa; dove si pone il confine, estremamente labile, che separa il talento dalla capacità affabulatoria e l’autenticità dalla simulazione. E soprattutto: quanto può essere crudele e terrificante il disincanto (l’immagine conclusiva del “risveglio” dell’operaia omicida nell’asfissiante minimalismo di Bubble) dopo il più estremo e fascinoso degli inganni ( la parata di star luccicanti dei vari Ocean’s).

Ammetto di aver subito il fascino dell’inganno finale, struggente più che consolatorio, che Soderbergh concede a Scott: quel saluto al suo Liberace issato su un palcoscenico che diventa il trampolino di lancio verso un paradiso ridotto a scenografie di carta pesta ed effetti speciali da baraccone, una scena ipertestualizzata dal leit motiv simbolo della vita di Liberace -che ormai non suona più neanche kitsch ma solo amaro contocanto: “Troppo di qualcosa di buono è sublime”

La Fabbrica in fallimento ha prodotto il suo ultimo sogno.

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