Avevamo lasciato, un anno fa, un Woody Allen in netta ripresa, grazie a un film, Blue Jasmine, caustico e tagliente, riuscito e ispirato, nobilitato da una maiuscola Cate Blanchett. Avevamo bisogno di ulteriori indizi, per capire quale direzione stesse prendendo in questa fase crepuscolare la carriera del maestro newyorkese, e dichiarare ufficialmente chiusa la parentesi più bassa e (per i più fortunati) dimenticabile della sua filmografia. Arriva quindi con queste premesse Magic in the moonlight, opera per la verità interlocutoria, brillante solo a tratti, ma in ogni caso sufficientemente lontana dal desolante livello degli ultimi anni. Per il profondo affetto nei confronti del regista, e per il ricordo ancora doloroso dello sconforto provato, per esempio, durante e dopo To Rome with love, chi scrive preferisce quindi vedere il bicchiere mezzo pieno.Se Blue Jasmine era incentrato, fin dal titolo, su un solo personaggio, e su un’attrice che si prendeva tutta la scena, Magic in the moonlight verte invece sul dualismo tra Colin Firth ed Emma Stone. Il primo si esibisce ogni sera nei panni di Wei Ling Soo, illusionista di fama mondiale, ma nella vita di tutti i giorni è Stanley, persona estremamente fredda e razionale. Sa benissimo che dietro ogni magia si cela un trucco, e non crede a nulla di spirituale o di paranormale. Proprio per questo motivo, è convocato da un vecchio amico nel sud della Francia, allo scopo di smascherare una affascinante, sedicente medium che sta cercando di abbindolare una facoltosa famiglia (e il giovane rampollo invaghitosi di lei). La seconda è, appunto, la sensitiva, Sophie, deliziosa canaglia dal sorriso disarmante. Per quanto si sforzi, però, Stanley non riuscirà a scoprire alcun trucco, finendo col credere ai poteri paranormali di Sophie, rimettendo in discussione tutte le sue granitiche certezze, e ovviamente innamorandosi di lei.Vengono a questo punto in mente, per (magari macchinosa) associazione di idee, due film, dall’atmosfera ben diversa, di qualche anno fa. In Hereafter di Clint Eastwood, l’assunto di partenza è che esiste gente in grado di comunicare con l’Aldilà. Non esiste un punto di vista alternativo che accontenti gli scettici, né un dubbio o una possibile spiegazione: è così e basta. In Volver di Almodóvar, compare a un tratto un personaggio che per tutti gli altri è – pacificamente e senza discussioni – un fantasma, fino a un colpo di scena che chiarisce la situazione. Nel primo caso, si percepisce una stonatura (cinematografica – non si danno qui giudizi sulla sfera spirituale), che mina la cosiddetta sospensione dell’incredulità; nel secondo, il film decolla proprio con lo svelamento dell’arcano. Ecco, Magic in the moonlight va in questa direzione: si conosce il pensiero di Woody Allen sull’argomento, non ci si aspetta certo un cambio di rotta e ci si chiede, piuttosto, come e quando saranno giustificati i fatti a cui si assiste. E lo scioglimento dell’intreccio è degno, se non del miglior Woody, almeno di un Woody mediamente ispirato.

Per quanto riguarda Stanley, quindi, il mondo ritorna quel palcoscenico squallido, ma allo stesso tempo rassicurante, che era stato fino all’incontro con Sophie. Ma in lui qualcosa è cambiato: la breve parentesi dell’illusione è stato forse il momento più felice della sua vita. L’ottimismo dato dalla fede in qualcosa di superiore ed imprevedibile gli ha dato emozioni nuove, mai provate – spingendolo addirittura a pregare per l’amata zia. Sophie l’ha ingannato, ma sotto sotto sono uguali, anime gemelle: entrambi, illudendo la gente, regalano attimi di gioia e speranza. Entrambi, in fondo, sanno che la vita “sarà pure priva di senso, ma non di magia”.

Per quanto riguarda Woody, invece, vale forse un avverbio usato poc’anzi, “mediamente”, e la metafora del bicchiere, usata anch’essa in precedenza. Certe vette non saranno più toccate, vero, ma va pure detto che sono stati pochissimi i registi che le hanno raggiunte. Molti dei film degli ultimi 10-15 anni sono stati disastrosi, e hanno fatto persino auspicare, più di una volta, un dignitoso ritiro dalle scene. Ma se così fosse stato, diciamo, nel 2002 (Hollywood ending), non avremmo avuto Match point o Blue Jasmine. Ben venga, dunque, un lustro di aurea mediocritas e di Magic in the moonlight, se seguito, poi, da un Blue Jasmine e non da un Vicky Christina Barcelona. E allora brindiamo a Woody Allen, con un calice, rigorosamente, mezzo pieno.

 

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