Tra le vecchie audiocassette conservate in una scatola di latta ho ritrovato e riascoltato con una certa emozione questa intervista al regista Carlo Mazzacurati che incontrai al Lido il 9 settembre 2000, dopo la proiezione de La lingua del santo. Alla conversazione partecipò anche Gianni Capalbo, allora studente di lingua e cinema cinese ora residente a Belgrado, che a distanza di anni e di kilometri ringrazio.

Stralci dell’intervista vennero pubblicati su Close-up.it ma da anni non ce n’è traccia sul web. Quindi come omaggio al regista recentemente scomparso ho deciso di riproporla.

Dopo anni di rappresentazioni banali di Venezia e della laguna ci sono stati dei film come La lingua del santo o  Pane e tulipani di Soldini che hanno finalmente descritto l’ambiente veneto in maniera diversa. Può parlarci del suo rapporto con la laguna che compare spesso nei suoi film?

Uno dei pochi buoni motivi per cui sono tornato a vivere qui è quello di poter trascorrere del tempo libero, quando ne ho, in laguna. È una personalissima maniera di trascorrere il tempo. C’è un’atmosfera, una dimensione esistenziale che mi è molto congeniale. Questo incontrarsi tra la terra e l’acqua, strano. Una campagna di acqua in fondo… Che non è ancora mare.

Io ho una piccolissima barca e quando abbiamo posso con un amico vado a pescare o a fare dei giri. Passiamo abbastanza tempo in laguna anche di inverno.

Nei suoi film c’è spesso un discorso morale, si percepisce una estraneità a certe tendenze della società italiana (Un’altra vita, La lingua del santo, etc). Ma la forza del suo cinema è che non sfocia mai nel predicatorio. Come fa a mantenere questo equilibrio?

Non vorrei sembrare presuntuoso, ma è un procedere assolutamente naturale nella composizione della storia, della sua struttura, dei contenuti interni, dell’espressione dei personaggi. Non mi pongo l’obiettivo di non essere moralistico. Non mi piace quando i personaggi spiegano troppo, credo pochissimo alla verità delle parole nei dialoghi. Sono molto più veri i comportamenti e i gesti. Penso che la verità del personaggio la si debba trovare nell’azione; le parole spesso sono un piano che può essere mistificatorio. Quindi mi piace che i dialoghi esprimano altro, che non stiano a spiegare. Spiegare diventa un po’ ideologico, purtroppo c’è spesso questo nel nostro cinema. È anche la televisione che spesso ha degradato il linguaggio espressivo della narrazione per immagini, a volte c’è una tendenza verso un abbrutimento generale. Il rischio grosso a cui andiamo incontro in questa epoca è che le generazioni che stanno crescendo, e che si alimentano di nutrimento narrativo di tipo televisivo, rischino di perdere il gusto delle cose e quindi di non riconoscere il lavoro ben fatto, che per me è un bene preziosissimo cui far riferimento sempre.

La mia fortuna è stata quella di aver potuto apprezzare e vedere molto cinema ben fatto. Quello non è che lo rifai perché lo copi e basta, entra nel tuo DNA e diventa un tuo obiettivo non andare sotto. Come nell’opera, oggi è difficile avere gli strumenti a vent’anni per saper distinguere la qualità di una messa in scena.

Nella Lingua del santo la figura dell’industrialotto del nord est è davvero credibile, è riuscito a rendere sottilmente ironico tutto il passaggio.

Quello è un tono particolare dentro cui stare, mi sembra molto interessante in questo momento, in un’epoca nella quale la falsificazione della verità è diventata il maggior dominio delle cose. Stiamo combattendo contro questi mulini a vento che mentono e purtroppo questa cosa paga. Quindi lavorare sul problema della falsificazione delle cose, è il tema maggiore che questo paese ha.

Tra l’altro Michele Serra sottolineava in un articolo come stiano sorgendo assessorati alla cultura veneta o alle culture ultra regionalistiche…

Sì, siamo alla pazzia. Ne parlavamo questa estate. Questa discussione è nata perché noi abbiamo fatto dei documentari, dei Ritratti di alcuni scrittori (Rigoni Stern, Meneghello, Zanzotto). Abbiamo fatto una piccola società per produrre questi documenti. E siccome la Regione Veneto ci ha aiutato con un po’ di soldi, noi dobbiamo trattare con un assessorato all’identità veneta che è un abominio in cui si sta precipitando come se fosse una cosa normale. Non si rendono nemmeno conto della comicità che la cosa esprime.

Prima diceva che si è nutrito di molto buon cinema. Può dirci se ci sono degli autori cui si è ispirato maggiormente?

Io non credo che nessuno che fa questo mestiere sia in grado di avere un’idea così monolitica da sentire netta un’influenza da parte di un autore. In fondo fare un film è un’esperienza totalmente alla cieca, è il materiale che ti trovi davanti da elaborare che determina lo stile e la strada da percorrere. Io credo che le influenze vi siano ma in una maniera che non controlli, hai un insieme di riferimenti, di film, di frammenti e ricordi che anche inconsciamente tornano.

L’unica cosa che posso dire è che c’è un film inglese, che mi è carissimo per un fatto molto personale,  che si intitola Shakespeare a colazione. Quello è un film che mi ha influenzato, nel senso che mi è stato così congeniale il clima di che vi si respirava da spingermi forse ad un certo momento a cercare una storia che mi aiutasse come ad espanderlo, a mangiarlo, a farlo diventare parte di me, come se fosse un’acqua nella quale entrare. Forse non c’è nessuna affinità poi sul piano della narrazione, però c’è come un’atmosfera che ho cercato ne La lingua del santo, come fosse una famiglia cui appartenere.

Uno dei punti di forza del film è sicuramente la prova di Albanese che si distacca molto dai suoi personaggi televisivi. Ha influenzato un po’ il tono del film?

È bravissimo. È stato molto coinvolto dal film, ha molto creduto in questa avventura. Questo ti aiuta molto a crederci. Un film è un’avventura menzognera, tu devi costruire una menzogna in una maniera articolata e credibile in maniera tale che la gente sospenda il giudizio per un’ora e mezza e creda a ciò che vede sullo schermo. Avere due attori (Albanese e Bentivoglio, ndr) così coinvolti mi ha dato molto coraggio, è come se la loro volontà, la loro appartenenza a questa impresa mi abbiano dato il coraggio anche di espandere ulteriormente, di andare sopra le righe; e ciò può diventare una forza in una storia. Perché il vero problema di fondo in cui ci dibattiamo facendo del cinema in Italia è che questa crisi cronica, che crea film per film il rischio che le persone che fanno questo mestiere si irrigidiscano, abbiano paura di sbagliare. Come un calciatore che ha paura di sbagliare e che si irrigidisce sbagliando. Questa pressione continua, toglie la cosa più bella che è il gesto casuale, come quel tiro folle che ha fatto Totti calciando quel rigore dal basso. Quello è un gesto di grande  libertà; la bellezza è la libertà infantile di fare improvvisamente un gesto che sorprende.

Quindi lei durante la lavorazione del film lascia delle porte aperte all’improvvisazione?

Quando la struttura è molto definita e sappiamo dove stiamo andando e cosa stiamo cercando, quello che stiamo cercando lo dobbiamo trovare improvvisando. È una predisposizione alla casualità che va costruita, è un elemento importantissimo di qualsiasi esperienza creativa. È come se tu accerchiassi il caso per ottenere un risultato inatteso dentro una dimensione definita.

Nel Toro e in Vesna va veloce  i personaggi erano sconfitti, invece Bentivoglio ne La lingua del santo  si ferma prima del traguardo perché ha vinto…

Èuna maturazione mia, è un percorso. Fare del cinema è anche mettere pian piano a punto una direzione lungo una traiettoria, credo di aver lentamente trovato la mia maniera per poter far vincere chi non vince mai. Si capisce dai miei film che mi interessano più le persone che fanno una certa fatica a vivere, di quelle realizzate. Mi sembra sempre più vitale la dimensione di chi con la vita ci combatte. Stavolta l’aver costruito un film dove le stesse persone degli altri film sono viste con una lente un po’ diversa mi ha fatto piacere. Ho pensato che si può guardare lo stesso mondo e trovare anche la maniera di sorriderci.

Lei è stato anche attore e in Caro diario ha interpretato il ruolo del critico che ascolta le sue tremende recensioni lette da Moretti.

Ne pago ancora le conseguenze, non so se leggete Il manifesto. Se guardate le recensioni dei miei film…

C’è da parte sua interesse per le opinioni dei critici nei confronti dei suoi film?

Io penso che la critica possa essere un punto di riflessione importantissimo, va tenuto conto che facendo il mestiere di regista tu tratti la materia ma la conosci solo in parte. Certi risultati positivi o negativi che puoi ottenere sono più infantili e inconsapevoli di quanto la gente creda. Poter leggere qualcosa che riguarda il tuo lavoro e che ha una sua profondità è sempre utile. È fondamentale. A volte è molto chiarificatore anche ad anni di distanza, quando riesci a mettere il tuo lavoro in una posizione di lontananza per cui puoi ragionarci meglio. Il lavoro per i quotidiani francamente ha uno spazio così limitato che difficilmente può approfondire, anche se a me di solito mi trattano bene.

Esistono delle riviste che questo lavoro e secondo me lo fanno piuttosto bene, come Cineforum,  che è una buona rivista. Fatta da gente perbene che non è che ci guadagni granché. Ma è fatta bene e leggere riviste del genere permette anche di scegliere i film da andare a vedere.

In questa conversazione lei conferma ciò che avevamo colto dai suoi film, nei quali ha usato un linguaggio molto intenso che però cerca una grande semplicità. Ci invita ad un uso oculato del linguaggio. Come in quella scena di Caro diario.

Ma io lì mi ero semplicemente prestato a una sorta di scherzo, così credevo, non conoscendo il film. Poi non essendo capace di star davanti alla macchina da presa, ero talmente atterrito che quel dolore era semplicemente imbarazzo; ha funzionato come quando si sgrida un bambino. Non sono stato bravo.

Ha subito come il bambino di Ladri di biciclette cui De Sica dava del raccoglitore di cicche…

(Ride). La stessa cosa ha fatto Moretti con me.

Ci può parlare del Prete bello e del rapporto con l’opera di Parise?

Ho un’antica passione per la letteratura che va di pari passo con quella per il cinema. Quando posso trovare una occasione per unirle la colgo. In quel caso io ho preso dal romanzo solo quello che più mi assomigliava, non ho restituito il senso del romanzo che invece è fatto di tutt’altra materia, il libro ha una dimensione quasi surrealista. Invece io l’ho chiuso in una dimensione molto più intimista ed anche stretto lo sguardo su un aspetto. Non è semplice trarre cinema dai romanzi, perché un  romanzo ha una espansione narrativa che difficilmente in due ore riesci a contenere. Mi interessava  mettere a fuoco la dimensione che c’è nel personaggio del ragazzo protagonista, che da bambino diventa adolescente e consapevole. Questo aspetto mi interessava anche perché molto immerso in un clima e in una lingua che conoscevo, anche se è ambientato quarant’anni prima. È stato come prendere a prestito uno sfondo, come se si prendesse una scena teatrale che preesiste, vi si entrasse e si ricostituisse una storia là dentro. Un po’ come dicevo a proposito del senso di appartenenza che ho sentito in quel film inglese.

Spesso la letteratura mi ha dato degli stimoli che hanno messo in moto la mia voglia di fare un film, come nel caso de L’estate di Davide. Un film piccolo produttivamente, fatto per la televisione. Sono certo che è stato molto influenzato dalla letteratura. L’ho scritto tra l’altro con lo scrittore Claudio Piersanti. Tutti e due avevamo un libro di riferimento: per me era Altre voci, altre stanze di Capote per lui Il grande Meaulnes di Alain-Fournier.

Che pensa del cinema italiano di oggi?

Per fare cinema ci vuole passione e anche una dose di ingenuità, bisogna saper ascoltare. Quello che mi spaventa è che alcuni registi arrivati ad una certa età sembrano perdere il contatto con il loro tempo. Non che il cinema debba sempre essere per forza realistico ma dovrebbe essere specchio trasfigurato, reinventato dell’epoca in cui viviamo. Questo sono stati capaci di farlo registi come Bellocchio, i cui film rappresentano dei momenti della storia di questo paese. Bisogna essere dotati di una grande sensibilità e finezza, come un tocco misterioso. Mi vengono in mente Germi, Pietrangeli, però sono sempre degli isolati, spesso non amati nel loro tempo. È un po’ il destino inevitabile di chi fa in modo riuscito questo mestiere. Come si comincia a raccontare una storia? È molto complicato. Bisogna essere dotati di questa luce. Adesso non è lo strumento il problema e sicuramente tra pochissimo magari verrà fuori una persona giovane che saprà raccontare il nostro tempo.

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