Dallas buyers club è la vera storia di Ron Woodroof. La storia della sua lotta contro l’AIDS, contro la società repressiva delle lobbies dei farmaci, la storia della sua redenzione come essere umano.

Il vitalismo americano irrompe di nuovo nel cinema, come innumerevoli altre volte, ma questa volta rinuncia a prendere di petto le sue contraddizioni. O meglio, queste contraddizioni, la parte interessante del film, vengono in qualche modo oscurate.
Ciò che di affascinante c’è, ovverossia la potenza intrinseca e primordiale della lotta della volontà dei corpi e delle menti tese a superare gli ostacoli e le assurdità dell’esistenza,controla malattia e contro la società che crea la malattia, e che quindi la manipola per soggiogare le individualità, cozza maldestramente con la favola americana del lieto fine, ahimè.
Ron Woodroof è il prototipo dello stronzo americano texano, omofobo, puttaniere, razzista, scommettitore e truffatore. Ma ama, adora la vita, la sua vita violenta che ha ereditato da situazioni familiari altrettanto violente e dalle quali si è salvato probabilmente con una dose di violenza ancora maggiore. Non c’è molto di nuovo o di non conosciuto in questo, la carica di attrazione risiede proprio nel vitalismo, portato naturale e conseguente del pionierismo americano, dell’incredibile energia che si libera nella lotta per la sopravvivenza per affermare se stessa e il diritto alla violenza sterminatrice. La letteratura e il cinema americano se ne sono sempre alimentati e se ne alimentano tutt’ora, ininterrottamente.
Questa è la cornice nella quale le immagini iniziali del film, il rodeo, il sesso selvaggio, duro e animalesco dentro il recinto degli animali, l’ansimare dei corpi e l’ansimare della paura del cow boy a cavallo del toro che sta per scatenarsi, dentro una liquida tensione ed esasperazione, al limite della rottura, svolgono la loro viva rappresentazione e liberano un’energia selvaggia. Inizio davvero molto bello.
La descrizione del personaggio, del suo corpo, del suo ambiente, l’alcol, il sesso, la cocaina, il lavoro rude, i bar scuri, il gambling, la violenza, è efficace, cruda e realistica, un realismo al quale il buon cinema americano ci ha abituato, da Peckinpah in avanti.
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La comparsa della malattia, il suo insinuarsi e manifestarsi in modo irriverente, quasi a schernire questa misera volontà di potenza è dirompente. Ron viene portato in ospedale mezzo morto dopo i soliti eccessi, la reazione del cowboy di fronte alla realtà beffarda è di rifiuto incredulo e schifato a quella che sembra essere una impossibile presa in giro del destino. Quella malattia da froci non gli appartiene, è semplicemente inconcepibile che gli stia per portare via la vita.
Sembra invece che sarà proprio la malattia, questa dimensione atemporale di vita sospesa, a restituirgliela nella sua pienezza, gli restituirà la capacità di far interagire la sua mente e la sua foga vitale, tramite il suo corpo devastato, con quella degli altri, esseri umani, reietti, ma capaci di amore profondo proprio perché il loro corpo, la loro sessualità, sono attraversati dal dolore, dalla fatica dell’esistenza, dall’apparente fuga dalla violenza.
Apparente perché anche loro sono figli dello stesso vitalismo, sebbene su loro abbia operato la dolce anestesia della sofferenza e della conoscenza. E così i due mondi si incontrano, si compenetrano, si fondono, marciano insieme verso un’eroica affermazione dell’esistenza che non può finire che con la morte.
In questo incontro, e nell’incontro con la morte, scatta furiosamente la scintilla della poesia e della bellezza. Le scene dei corpi in dissoluzione, dentro la consapevolezza della grandiosità della battaglia e la fragilità della carne e dell’io, sono magnifiche.
Peccato che questi frammenti di altissima tensione, di poesia, vengano velati, quasi nascosti, dalla banalità dei meccanismi di produzione del film candidato a 6 premi Oscar.
Prevale alla fine il racconto americano confezionato in modo manipolatorio per l’enorme pancia degli States e dei loro derivati, che non è mai sazia di storie a lieto fine e del prevalere dell’individualismo contro le istituzioni malvagie e corrotte, il favolismo americano insomma.
È doveroso tra l’altro ricordare che, almeno a parere di chi scrive, l’impianto storico e scientifico del film è assolutamente fuorviante rispetto alla storia della ricerca medica e della pratiche terapeutiche ed epidemiologiche che hanno portato ad un concreto e significativo ridimensionamento dell’AIDS al rango di una malattia non ancora curabile, certo, ma trattabile sì.

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