Un gioco di simmetrie e opposizioni regola la storia di Monsieur Lazhar di Philippe Falardeau. Una scrittura raffinata e sottile regola una storia che sembra fatta di niente, eppure ha il marchio del tempo moderno.

In breve: una delle migliori insegnati della scuola canadese francofona in cui è ambientata l’azione, Martine, si impicca in classe, probabilmente raggiunta dagli schizzi di fango pseudo-pedofilo per aver innocentemente abbracciato (e forse baciato?) un alunno impaurito. Il piccolo Simon si porta sulle spalle la croce di questa responsabilità immotivata e immane. Ha raccontato l’abbraccio e il bacio, perché quell’intimità non gli piaceva. E il racconto è diventato gossip, poi accusa per la docente, poi probabilmente la causa efficiente del decesso premeditato e plateale.

Quel corpo appeso, visto solo da Simon e da una sua compagna, Alice, sta lì a ricordargli la sua colpa. E’ la sua colpa.

I ragazzi restano senza insegnante di francese, non si trovano sostituti. La classe viene ridipinta per tentare di cancellare i ricordi amari. E improvvisamente si presenta, non richiesto, Monsieur Lazhar. Di sua iniziativa, fa visita alla direttrice “politically correct” della scuola, si candida, si dichiara in possesso di tutti i requisiti, e sale a bordo. Perché nessun altro vuole quel posto.

Ma…

Ecco che il terreno è preparato, è steso il letto sul quale il regista, confortato dall’autrice del testo teatrale da cui è tratto il film,  Evelyne  De La Chenelière, inizia il sapiente gioco di rimpiattino.  Un piccolo manuale per costruttori di storie. Un manuale di struttura. E qui ci si consentirà di abbandonare la trama per segnalare il prezioso gioiello della costruzione e del montaggio cinematografico.

Andiamo subito all’ultima scena, senza svelare la soluzione della storia. C’è un abbraccio, fra Lazhar e la piccola Alice, un abbraccio di fraterna solidarietà, puro, simmetrico e opposto a quell’abbraccio fra Martine e Simon che è all’origine del dramma.

Quindi il finale, proprio il finale, offre la chiave più evidente per risalire alle nascoste strutture del film. Procediamo. Lazhard in realtà è un immigrante apolide, viene da una Algeria che ce l’ha non con lui, ma con sua moglie, colpevole di aver pubblicato un pamphlet contro il potere. Attentato incendiario, di cui lui è l’unico superstite, moglie e figli orribilmente trucidati.

In  attesa delle verifiche del ministero, ottiene il posto, da vedovo, per sostituire una sucida. Non è insegnate lui, lo era sua moglie. Di cui lo raggiungono le ultime cose poche salvate dall’incendio, una fotografia, dei timbri, dei libri che lui userà per reinventarsi docente.

Ogni sua azione in classe è una contraddizione del metodo della insegnate precedente. La sua conoscenza della grammatica, assolutamente obsoleta. La sua concezione del rapporto didattico, antiquata. Ma lui è lì, completamente dedicato a quei ragazzi, che sono diventati i suoi ragazzi. Mentre Martine li ha abbandonati, lasciando loro il suo corpo dolentemente appeso proprio in classe, con una violenza della disperazione che segna i suoi alunni indelebilmente.

Fra loro, i due protagonisti sono agli opposti, Simon il maschietto della colpa, Alice la preferita. Lui che ha introiettato la violenza dell’accaduto e che risponde con comportamenti altrettanto violenti verso i suoi compagni; lei che invece va in profondità e rompe tutte le regole, richiamando la classe che tenta di dimenticare e rimuovere, al ricordo della loro insegnate, in una esposizione verbale che coinvolge tutti. E che prende di mira Simon per la sua reticenza.

E la risposta simmetrica di Simon sarà proprio l’outing.

C’è una insegnate con cui Lazhar entra in simpatia, che tenta di inserirlo nella ciurma dei docenti. E che tenta di aprirne le barriere e gli schermi, perfino sentimentalmente. Ma Lazhar si porta dentro il suo dramma algerino, le udienze in tribunale per ottenere lo stato di rifugiato politico, la sua storia straziante che non arriverà mai all’espressione ma che gli ha invecchiato il cuore. Non ha spazio per un rapporto, se non coi bambini.

Nell’unico incontro che ha con gli altri due uomini presenti nella scuola, il prof di ginnastica e sorvegliante e il bidello, l’abisso non potrebbe essere più profondo. Sembrano appartenere a due pianeti diversi. Lazhar, con il suo mondo ricchissimo e positivo; gli altri due, con i loro insulsi luoghi comuni. Ma regolari e ufficiali. Normali.

Anche i ragazzi fra di loro sono simmetrici. Victor, grassoccio e malandrino, ma un vero bue che sopporta ogni angheria, ha il suo contraltare in Marie-Frédérique, longilinea e saccente, nonché spia presso i propri genitori di quanto avviene in classe. Ce n’è un altro muto e quasi solipsistico, e un altro di origine araba, Abdekmalek, che viene ripreso da Lazhar ogni volta che tenta di parlargli in arabo.

Ancora, Lazhar non parla delle sue origini, ma non riesce a trattenersi dal muoversi con sapienti cadenze di danza araba ascoltando dalla sua aula la musica a tutto volume della festa scolastica, giù nell’aula magna. E una volta trascinato lì e invitato a ballare, ovviamente rifiuta dichiarandosi incapace di danzare (o meglio dimenarsi) in maniera moderna, senza regole e movenze. Senza i passi giusti. 

Lazhar non è un insegnate. Non è politicamente corretto. Non dice la verità. Però è un uomo che ha dentro di sé la forza della umanità, la forza dei popoli con radici solide. L’intelligenza di chi ha vissuto non solo dentro le aule degli istituti, ma ha conosciuto la vita e la morte. Lui sa come uscirne fuori, insieme al suo branco, la sua classe. Le regole non vengono da fuori, stanno dentro di lui, sono le radici positive, la Tradizione che s’incarna nelle mille situazioni mutevoli della vita corrente. E che ti guida fuori dai marosi in tempesta.

E questo i bambini lo sentono. Gli si aggrappano istintivamente, sebbene abbia mille difetti, perché sono turaccioli nella risacca, abbandonati dagli adulti e sbattuti dalle onde. Anche i genitori non sfuggono alla struttura,  simmetricamente divisi e contrapposti: alcuni, come i genitori di Alice,  sentono che i loro figli hanno trovato, nel dramma, uno scoglio solido. Altri invece, come quelli di Marie-Frédérique, vedono in lui le lacune di un insegnate che proprio non funziona. E lo vogliono fuori.

E allora rifletti, come spettatore e come appartenente a questo mondo “corretto”. Dove serpeggia la violenza, ma i bambini non possono essere toccati neanche con uno scappellotto. Un sacrosanto scappellotto. E non devono essere coinvolti in discorsi importanti, neanche quando la vita e la morte saltano loro addosso.  Questo non è il politically correct, questa è imbecillità. Perché dietro la correttezza in realtà si annida l’assenza di umanità, la vuotezza, l’assenza di misura. E anche di coraggio. Le regole di questo mondo piano piano diventano assurde, se le vedi con occhi clandestini. Se le vedi da fuori.

E’ la sapiente costruzione del film, la struttura cui accenniamo, che ti offre la cornice e scrive nell’immateriale del racconto i confini e i limiti delle regole civili. Quelle regole attraverso le quali Lazhard passa come un elettrone slegato e vagabondo, un outsider che illumina il buio grigiore della vita.

Lazhar ottiene il lavoro d
a clandestino, ma appena viene riconosciuto rifugiato e quindi meritevole del sostegno dello stato canadese, si ritrova disoccupato.

Ossessivamente il regista propone e nega, mette anodo e catodo in connessione, e assiste divertito alle scintille che si sprigionano, come un monello. E quelle scintille illuminano tutta la storia e i caratteri umani quasi come se fossero visibili per la prima volta in tinte reali, traendoli  dal grigio nel quale giacciono e portandoli dentro uno spazio colorato dove finalmente diventano visibili.

E diventano ― inevitabilmente e disgraziatamente ― lo specchio dello spettatore normalizzato. E capisci che quella struttura è proprio la tua struttura.

Un gioco di simmetrie e opposizioni regola la storia di Monsieur Lazhar di Philippe Falardeau, in uscita nelle sale a fine agosto. Una scrittura raffinata e sottile regola una storia che sembra fatta di niente, eppure ha il marchio del tempo moderno.

In breve: una delle migliori insegnati della scuola canadese francofona in cui è ambientata l’azione, Martine, si impicca in classe, probabilmente raggiunta dagli schizzi di fango pseudo-pedofilo per aver innocentemente abbracciato (e forse baciato?) un alunno impaurito. Il piccolo Simon si porta sulle spalle la croce di questa responsabilità immotivata e immane. Ha raccontato l’abbraccio e il bacio, perché quell’intimità non gli piaceva. E il racconto è diventato gossip, poi accusa per la docente, poi probabilmente la causa efficiente del decesso premeditato e plateale.

Quel corpo appeso, visto solo da Simon e da una sua compagna, Alice, sta lì a ricordargli la sua colpa. E’, la sua colpa.

I ragazzi restano senza insegnante di francese, non si trovano sostituti. La classe viene ridipinta per tentare di cancellare i ricordi amari. E improvvisamente si presenta, non richiesto, Monsieur Lazhar. Di sua iniziativa, fa visita alla direttrice “politically correct” della scuola, si candida, si dichiara in possesso di tutti i requisiti, e sale a bordo. Perché nessun altro vuole quel posto.

Ma…

Ecco che il terreno è preparato, è steso il letto sul quale il regista, confortato dall’autrice del testo teatrale da cui è tratto il film,  Evelyne  De La Chenelière, inizia il sapiente gioco di rimpiattino.  Un piccolo manuale per costruttori di storie. Un manuale di struttura. E qui ci si consentirà di abbandonare la trama per segnalare il prezioso gioiello della costruzione e del montaggio cinematografico.

Andiamo subito all’ultima scena, senza svelare la soluzione della storia. C’è un abbraccio, fra Lazar e la piccola Alice, un abbraccio di fraterna solidarietà, puro, simmetrico e opposto a quell’abbraccio fra Martine e Simon che è all’origine del dramma.

Quindi il finale, proprio il finale, offre la chiave più evidente per risalire alle nascoste strutture del film. Procediamo. Lazhar in realtà è un immigrante apolide, viene da una Algeria che ce l’ha non con lui, ma con sua moglie, colpevole di aver pubblicato un pamphlet contro il potere. Attentato incendiario, di cui lui è l’unico superstite, moglie e figli orribilmente trucidati.

In  attesa delle verifiche del ministero, ottiene il posto, da vedovo, per sostituire una sucida. Non è insegnate lui, lo era sua moglie. Di cui lo raggiungono le ultime cose poche salvate dall’incendio, una fotografia, dei timbri, dei libri che lui userà per reinventarsi docente.

Ogni sua azione in classe è una contraddizione del metodo della insegnate precedente. La sua conoscenza della grammatica, assolutamente obsoleta. La sua concezione del rapporto didattico, antiquata. Ma lui è lì, completamente dedicato a quei ragazzi, che sono diventati i suoi ragazzi. Mentre Martine li ha abbandonati, lasciando loro il suo corpo dolentemente appeso proprio in classe, con una violenza della disperazione che segna i suoi alunni indelebilmente.

Fra loro, i due protagonisti sono agli opposti, Simon il maschietto della colpa, Alice la preferita. Lui che ha introiettato la violenza dell’accaduto e che risponde con comportamenti altrettanto violenti verso i suoi compagni; lei che invece va in profondità e rompe tutte le regole, richiamando la classe che tenta di dimenticare e rimuovere, al ricordo della loro insegnate, in una esposizione verbale che coinvolge tutti. E che prende di mira Simon per la sua reticenza.

E la risposta simmetrica di Simon sarà proprio l’outing.

C’è una insegnate con cui Lazhar entra in simpatia, che tenta di inserirlo nella ciurma dei docenti. E che tenta di aprirne le barriere e gli schermi, perfino sentimentalmente. Ma Lazhar si porta dentro il suo dramma algerino, le udienze in tribunale per ottenere lo stato di rifugiato politico, la sua storia straziante che non arriverà mai all’espressione ma che gli ha invecchiato il cuore. Non ha spazio per un rapporto, se non coi bambini.

Nell’unico incontro che ha con gli altri due uomini presenti nella scuola, il prof di ginnastica e sorvegliante e il bidello, l’abisso non potrebbe essere più profondo. Sembrano appartenere a due pianeti diversi. Lazhar, con il suo mondo ricchissimo e positivo; gli altri due, con i loro insulsi luoghi comuni. Ma regolari e ufficiali. Normali.

Anche i ragazzi fra di loro sono simmetrici. Victor, grassoccio e malandrino, ma un vero bue che sopporta ogni angheria, ha il suo contraltare in Marie-Frédérique, longilinea e saccente, nonché spia presso i propri genitori di quanto avviene in classe. Ce n’è un altro muto e quasi solipsistico, e un altro di origine araba, Abdekmalek, che viene ripreso da Lazhar ogni volta che tenta di parlargli in arabo.

Ancora, Lazhar non parla delle sue origini, ma non riesce a trattenersi dal muoversi con sapienti cadenze di danza araba ascoltando dalla sua aula la musica a tutto volume della festa scolastica, giù nell’aula magna. E una volta trascinato lì e invitato a ballare, ovviamente rifiuta dichiarandosi incapace di danzare (o meglio dimenarsi) in maniera moderna, senza regole e movenze. Senza i passi giusti. 

Lazhar non è un insegnate. Non è politicamente corretto. Non dice la verità. Però è un uomo che ha dentro di sé la forza della umanità, la forza dei popoli con radici solide. L’intelligenza di chi ha vissuto non solo dentro le aule degli istituti, ma ha conosciuto la vita e la morte. Lui sa come uscirne fuori, insieme al suo branco, la sua classe. Le regole non vengono da fuori, stanno dentro di lui, sono le radici positive, la Tradizione che s’incarna nelle mille situazioni mutevoli della vita corrente. E che ti guida fuori dai marosi in tempesta.

E questo i bambini lo sentono. Gli si aggrappano istintivamente, sebbene abbia mille difetti, perché sono turaccioli nella risacca, abbandonati dagli adulti e sbattuti dalle onde. Anche i genitori non sfuggono alla struttura,  simmetricamente divisi e contrapposti: alcuni, come i genitori di Alice,  sentono che i loro figli hanno trovato, nel dramma, uno scoglio solido. Altri invece, come quelli di Marie-Frédérique, vedono in lui le lacune di un insegnate che proprio non funziona. E lo vogliono fuori.

E allora rifletti, come spettatore e come appartenente a questo mondo “corretto”. Dove serpeggia la violenza, ma i bambini non possono essere toccati neanche con uno scappellotto. Un sacrosanto scappellotto. E non devono essere coinvolti in discorsi importanti, neanche quando la vita e la morte saltano loro addosso.  Questo non è i
l politically correct, questa è imbecillità. Perché dietro la correttezza in realtà si annida l’assenza di umanità, la vuotezza, l’assenza di misura. E anche di coraggio. Le regole di questo mondo piano piano diventano assurde, se le vedi con occhi clandestini. Se le vedi da fuori.

E’ la sapiente costruzione del film, la struttura cui accenniamo, che ti offre la cornice e scrive nell’immateriale del racconto i confini e i limiti delle regole civili. Quelle regole attraverso le quali Lazhard passa come uno elettrone slegato e vagabondo, un outsider che illumina il buio grigiore della vita.

Lazhar ottiene il lavoro da clandestino, ma appena viene riconosciuto rifugiato e quindi meritevole del sostegno dello stato canadese, si ritrova disoccupato.

Ossessivamente il regista propone e nega, mette anodo e catodo in connessione, e assiste divertito alle scintille che si sprigionano, come un monello. E quelle scintille illuminano tutta la storia e i caratteri umani quasi come se fossero visibili per la prima volta in tinte reali, traendoli  dal grigio nel quale giacciono e portandoli dentro uno spazio colorato dove finalmente diventano visibili.

E diventano ― inevitabilmente e disgraziatamente ― lo specchio dello spettatore normalizzato. E capisci che quella struttura è proprio la tua struttura.

One Reply to “Le simmetrie di Lazhar”

  1. Non sono completamente d’accordo sulla sua analisi del film ma ritrovo molti punti di vista. Complimenti.

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